Folk, indie folk, country rock, blues, alternative rock, indie: i generi e le definizioni si sono sprecati per quest’artista unica che silenziosamente, nell’underground della scena statunitense, da Atlanta a Portland, si è mossa fra due decenni per arrivare a conquistare un ruolo di primissimo piano nel cantautorato americano.
Abbandonata la fedele Matador Records, dopo ben sei anni di silenzio (o quasi) dall’album Sun del 2012, esce a ottobre per la Domino Records la sua ultima fatica, Wanderer. Un disco dal titolo che più emblematico non si può, per descrivere una donna e un’artista che, abbandonata la madre da teenager (l’ha rivista solo a 24 anni) ha percorso in lungo e in largo tutti gli States ed ha collaborato praticamente con chiunque, da Eddie Vedder a Dave Grohl, da Steve Shelley dei Sonic Youth a Smog, a Lana Del Rey e tanti altri.
Una vera vagabonda, dunque, e il suo stile musicale ne riporta le tracce (o dovremmo dire le ferite?): uno stato di perenne blues intimista che fa da sfondo a tutte le sue prove musicali, sia quelle più orchestralmente strutturate (come Woman, in questo disco, il primo singolo), sia quelle più intimiste e folk, come You Get o la title track Wanderer, e una voce emozionale e profonda, inconfondibile come il suo stile, che è la vera traccia d’autore di questa straordinaria artista.
Non c’è percorso musicale che Cat Power in questi ormai vent’anni non abbia esplorato, e tutto è fedelmente riportato come un tatuaggio (o dovremmo dire come una cicatrice?) in questo disco: dalla melodia meravigliosa dell’arpeggio di chitarra di Horizon, al soul-blues minimalista di Stay e di Black, alla ballata acustica quasi medievale di Robbin Hood. Su tutte queste prove, meravigliose perle di enorme intensità, svetta la sua voce, da cantautrice e da cantastorie, mai eccessiva, mai urlata, ma dalle mille sfumature, in poche parole la più grande voce folk dei tempi attuali.
Ad ascoltare la conclusione del disco con Nothing Really Matters, Me Voy, e Wanderer Exit, si ha la sensazione che il disco ci saluti con un’ulteriore estremo sforzo di minimalizzazione, di essenzialismo puro: gli strumenti scompaiono, salvo una chitarra (Me Voy), un organo e poi una fanfara (Wanderer Exit), e naturalmente il suo canto, che diventa veramente un vocalizzo senza tempo, leggero come l’aria, etereo, sfumato, e tuttavia profondo e incisivo, come l’impressione che l’intero disco lascia di sè.
Non c’è dubbio alcuno allora della sincerità estrema con cui Chan Marshall parla di questo disco e di se stessa: «Le 11 tracce di Wanderer raccontano quello che è stato il mio viaggio fino a qui, come ho vissuto la mia vita, vagando di città in città con la mia chitarra, per raccontare la mia storia, nel massimo rispetto di tutti quelli che, prima di me, lo avevano già fatto. I cantanti folk e quelli blues, e anche tutti gli altri in realtà. Tutti hanno viaggiato, e io mi sento fortunatissima ad aver avuto la possibilità di fare lo stesso». E l’ascoltatore viaggia con lei, attraverso la sua voce, in atmosfere da sogno.
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autore: Francesco Postiglione