Eric Hobsbawm, nel suo saggio omonimo, definì il ‘900 come ‘Il Secolo breve’, una espressione divenuta poi quasi idiomatica. Naturalmente, anche il XX secolo – proprio come tutti gli altri – è durato cento anni, e quindi questa definizione trova senso nella chiave di lettura di Hobsbawm, che nel suo volume ‘condensa’ il secolo in quello che è a suo avviso il periodo più ‘omogeneo’ e significativo: cioè quello che va dal 1914 al 1991.
Ma a mio avviso sussiste anche una diversa interpretazione, e cioè che il ‘900 – con la sua straordinaria successione di rivolgimenti sociali e la sua incredibile accelerazione del progresso tecnologico e scientifico – abbia avuto una intensità tale, quale non s’era mai vista nella storia umana, da farlo apparire ‘velocissimo’.
Un’altro importante autore del ‘900, Paul Virilio, ha dedicato i suoi studi proprio all’impatto della velocità sulle trasformazioni sociali del secolo, sino a coniare un termine apposito: dromologia.
Se dunque il ‘900 è stato il secolo in cui tutto ‘accelerava’, esso è stato anche, se non soprattutto, il secolo del conflitto. Non semplicemente in senso ‘militare’, anche se in quell’arco di tempo si sono consumate una infinità di guerre (tra cui le due ‘mondiali’), alcune delle quali si trascinano tuttora; il ‘secolo breve’ è stato innanzitutto il secolo del conflitto sociale, ma poi anche del conflitto di genere, del conflitto ambientale, del conflitto ‘etico’ (si pensi alle bio-scienze…).
Contrariamente a quanto si è pensato – appunto – per buona parte del secolo scorso, la storia umana non è una linea retta che traccia un costante ‘progresso’; quanto meno, non se a questo termine si dà il valore attribuitogli nel ‘900, di miglioramento della condizione umana in senso lato.
Sotto questo profilo, la contraddizione più evidente è quella tra l’indubbio miglioramento delle condizioni materiali di vita dell’umanità (e lo straordinario progresso scientifico e tecnologico che l’ha accompagnato), ed il drammatico peggioramento delle condizioni materiali del suo habitat, il pianeta Terra.
Purtuttavia, è innegabile che la qualità della vita dell’umanità in senso ampio, sia sotto il profilo dell’alimentazione, della salute, dell’aspettativa di vita, sia sotto quello dell’accesso a beni materiali ed immateriali, nel corso del ‘900 abbia segnato un considerevolissimo passo in avanti. Così come questo miglioramento abbia caratterizzato (in termini assoluti e relativi) soprattutto le classi medie e basse.
Alla base di ciò, vi è appunto l’intensità e l’estensione del conflitto sociale, che mai prima del ‘900 si era manifestata in tal misura.
Il conflitto, dunque, è motore del cambiamento.
Come si orienti il cambiamento, ovviamente, non è dato saperlo prima, ma solo ex post. Il ‘900 è stato segnato da una tendenza ‘progressiva’, condensabile nell’icona del welfare state, come frutto di una ‘lotta di classe’ che ha visto sostanzialmente prevalere (di poco…) le classi subalterne; così come questo inizio del XXI secolo appare invece segnato da una tendenza ‘regressiva’, che vede prevalere (non di poco…) le classi dominanti, simbolegiabile nello smantellamento dello ‘stato sociale’.
Ma quale che sia la direzione assunta dal cambiamento, come esito del conflitto, quest’ultimo non può essere rimosso. Nonostante ciò che pensava Francis Fukuyama , la storia non è finita, perchè il conflitto non sarà mai finito ‘per sempre’, con la vittoria definitiva di una delle parti. Il conflitto è parte ineludibile della storia, è la sua essenza.
Se nel ‘900, secolo del pieno compimento della rivoluzione industriale, il luogo d’elezione del conflitto è stato la fabbrica, qual’è oggi questo luogo, nel XXI secolo – nel pieno della rivoluzione ‘immateriale’ digitale?
La fabbrica è stata terreno privilegiato del conflitto sociale novecentesco, non solo in quanto luogo principale della produzione, ma soprattutto in quanto luogo in cui si svolgeva gran parte dell’esistenza degli addetti alla produzione, che ne condividevano dunque le condizioni materiali e sociali (di reddito, ma anche di tempo, di subordinazione, etc). La fabbrica era dunque la ‘cittadella operaia’.
Ma con il nuovo millennio, la cittadella operaia è stata disintegrata, dalla delocalizzazione, dalla robotizzazione, dalla deindustrializzazione.
Un processo che ha significato innanzitutto la scomparsa della centralità operaia, come soggettività portatrice di interessi ‘universalistici’.
La parola chiave è ‘globalizzazione’.
La possibilità – innanzitutto tecnologica, quindi successivamente politica – di movimentare merci e capitali, senza limiti di spazio e quasi in tempo reale (anzi, ‘realmente’ così, per quanto riguarda i capitali e le merci immateriali), ha rappresentato la subitanea espansione dei mercati ad una dimensione planetaria. Un processo che, come corollario, ha prodotto il collassare degli stati nazionali, cioè di quegli ambiti che, sino a tutto il novecento, hanno delimitato e governato i mercati.
Questa espansione – velocissima – ha travolto la tradizionale forma organizzativa delle classi subalterne che, al di là di una ispirazione internazionalista, era sostanzialmente fondata sui movimenti operai nazionali. Questo ‘big bang’ sociale e politico ha lasciato dietro di sé il vuoto. ‘Scomparsa’ la fabbrica, scomparso l’operaio, scomparsi i suoi ‘movimenti’.
Per dirla con Gramsci, “la crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati“.
Ma perchè il nuovo ‘non può’ nascere? Qual’è – e di che natura è – l’impedimento?
Le condizioni oggettive sono quelle appena descritte. Il ‘vecchio mondo’ è morto. Ma chi dovrebbe costruire il nuovo, o continua ad utilizzare le categorie interpretative del ‘900, o non sa con cosa sostituirle. C’è quindi una componente soggettiva.
Purtuttavia, nuove categorie interpretative del presente cominciano ad emergere.
Senza voler con ciò operare una mera sovrapposizione di vecchie categorie su nuovi soggetti, se da un lato la globalizzazione spinge il conflitto lungo un asse ‘sovranista’ (in una sorta di nuovo nazional-socialismo…), dall’altra produce uno sforzo cognitivo teso ad identificare le nuove soggettività – ed i nuovi ‘luoghi’ – del conflitto sociale.
E se la figura dell’operaio è chiaramente ‘sostituita’ da quella del lavoratore (atipico, precario, senza tutele…), indipendentemente dalla mansione svolta nel processo economico-produttivo, sembra sempre più affermarsi l’idea che alla ‘cittadella operaia’ novecentesca corrisponda oggi – in virtù della medesima spinta espansiva tipica della globalizzazione – la metropoli urbana.
La città è, oggi, il luogo principe del conflitto, è la ‘fabbrica’ del terzo millennio.
Parallelamente, e sempre come conseguenza del collasso stato-nazionale, le metropoli diventano a loro volta soggetti di una competizione conflittuale globale, in cui si contendono il ruolo di poli economico-produttivi della nuova era – che non è più incentrata sulla produzione di beni materiali, ma su quelli immateriali, siano essi legati all’informazione, all’entertainment o alla finanza.
In una sorta di riedizione futuribile del Rinascimento italiano, i nuovi ‘Comuni’ planetari accentueranno sempre più questa tendenza ‘competitiva’, che prescinde dalla – o quanto meno si sovrappone alla – dimensione (formalmente) ‘nazionale’.
Questa direzione, che sta nelle cose ancor prima ed ancor più che nelle scelte, ci porta anche a dire che l’attuale fase ‘sovranista-populista’ non può che essere un episodio, per quanto ‘lungo’ (come lo furono il fascismo ed il nazismo), ma non potrà mai diventare l’orizzonte futuro.
Il sovranismo, è una forma di ‘luddismo politico’, ed in quanto tale di breve durata.
In questo quadro, in ogni caso, il conflitto sociale – esattamente com’è stato nel novecento – non sarà elemento che agisca da fattore negativo, ma al contrario sarà fattore propulsivo e di ‘progresso’.
Senza insomma ricorrere alla trita e ritrita citazione maoista, si può affermare che, nel caos generato dalla transizione incompiuta di gramsciana memoria, si annidano più opportunità che pericoli.
Ed il ‘luogo geometrico’ in cui si giocherà questa sfida sono le città metropolitane.
Quale sarà poi l’esito, dipenderà dalla capacità di cogliere le prime, per evitare i secondi.
autore: Enrico Tomaselli