Gaz Coombes alla tenera età di 42 anni si interroga oggi su paure, ambizioni, lati oscuri del maschio moderno. Non c’è dubbio che l’età è quella giusta per fare questo tipo di riflessioni, considerata la classica crisi dei quarant’anni.
Il titolo del nuovo disco, il terzo da solista dopo Here come the Bombs, e l’ottimo Matador, e naturalmente dopo la lunga e meritevole carriera con i troppo sottovalutati Supergrass negli anni ’90, conferma senza dubbio che l’ex basettone è cresciuto, musicalmente e come uomo.
Oggi Gaz è padre, partner, e musicista completo. Quest’ultimo aspetto, soprattutto, viene fuori da questo disco, il più strutturato, difficile, sperimentale, fino ad ora, della sua carriera solista. Appena presenti gli echi del brit-pop della sua ex-band, il disco si costruisce tutto su invenzioni elettroniche, psichedelia, cenni di krautrock (lui stesso dichiara di essere attualmente in fissa con i Neu!), che in alcuni momenti riescono a fondersi in modo da suonare freschissimi, come nel singolo Deep Pockets, tutto incentrato su noise e loop di batteria e sintetizzatori.
E’ un album prevalentemente elettronico, ma è rock elettronico: i Radiohead di Ok Computer, Kid A e Amnesiac sono inevitabilmente il confronto più diretto che balza alle orecchie: ascoltate per esempio i fraseggi di voce di ritornello di Deep Pockets, il falsetto e l’andante ritmico di Walk the Walk, o l’intera Shit (I Did It Again), l’assolo lirico di piano e voce in cui si introduce poi il loop di batteria di Slow Motion Life, la chitarra di Vanishing Act, e più di ogni altra cosa l’intro di Oxygen Mask e vi sembrerà di sentire Tom Yorke.
E’ sempre sbagliato fare paragoni in musica, ma questo disco vi porterà inevitabilmente all’essenza Radiohead, che la stessa band inglese sembra aver perso da qualche anno: vi sembrerà perciò di sperare che quello che ascoltate sia un disco dei Radiohead: perché Gaz Coombes recupera di quel alternative elettro-rock di cui Tom Yorke e compagni erano maestri gli aspetti più freschi, e li aggiorna al 2018.
Non solo relativamente alla composizione musicale, ma anche nei testi, carichi di sfumature punk, e non privi di un’espressività che deriva da ansia e depressione con cui Gaz rivela di aver vissuto la svolta dei quarant’anni, sia come passaggio dalla band alla carriera solista sia come passaggio dalla scanzonata adolescenza all’essere uomo e padre.
In questo senso, la title track World’s Strongest Man, non a caso piazzata all’inizio del disco, è un provocatorio manifesto: l’uomo moderno cerca di nascondere le proprie debolezze, i propri ego feriti, azioni evanescenti e strani sogni inquietanti (Wounded Egos, Vanishing Act e Weird Dreams sono tutti pezzi del disco) dietro la maschera dell’arroganza e della sbruffoneria.
World’s Strongest Man scorre pertanto come un concept album: ogni canzone insegue paure e ansie, come in una seduta di psicanalisi. Ma non rimane un messaggio dark: la terapia sembra piuttosto liberatoria, catartica.
Di sicuro, Gaz Coombes ne esce splendidamente, come un musicista completo, coraggioso, sperimentale, profondo, evoluto, capace di rinnovarsi rispetto al genere d’esordio, anche se sono forse troppi alla fine i passaggi strumentali che letteralmente “ruba” dalla band di Tom Yorke.
Deep Pockets, Wounded Egos, The Oaks, Weird Dreams sono alla fine i pezzi migliori, quelli dove gli riesce perfettamente di recuperare i suoi modelli rimanendo originale e innovativo.
Se la strada cominciata anni fa con i Supergrass doveva portare a questo, possiamo dire dopo tre dischi che l’esperimento è perfettamente riuscito.
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autore: Francesco Postiglione