Quando una band che si chiama A Perfect Circle ritorna con un nuovo album dopo quattordici anni, possono succedere solo due cose: la prima è che fanno un disco adulto, sussurrato, atmosferico, anche un pochino (ma poco poco) sperimentale, un disco che un pubblico maturo e conscio del fatto che gli anni ’90 (ma anche quei duemila lì) son finiti apprezzerà oltremodo; la seconda è che il neanderthal rockettaro nascosto dentro ognuno di noi si incazzi; adirato e deluso egli auspica il ritorno delle chitarre pesanti, per lui unico canale espressivo possibile per veicolare una critica anti-sociale, anti-establishement, anticlericale, economica e sui media.
E mentre Maynard James Keenan e Bill Howerdel, moralisti paraculi (perché flirtare con l’arena rock suggestionando ancora i post-goth, i post-industrial e gli alternativequalcosa tutti) ossessionati dal silicio ci responsabilizzano sul fatto che se non siamo noi a ricordarci da dove ricominciare siam fottuti, noi siam lì a chiederci se questo disco ci sia piaciuto o meno.
La fatidica risposta in odor di democristi è quella che vede noi con tutti i limiti della nostra età – abbastanza veneranda per evitare di far partire sempre il neanderthal di cui prima ma ancora non doma nei confronti di un rock che ci ha formati, forgiati e lasciati orfani – abbracciare Eat The Elephant perché ragazzi, fuori c’è la trap e prima di cominciare ad abbracciare anche quella – perché lo faremo, si che lo faremo – stiamo imparando ad accettare sempre di più anche il post-metal con l’autotune o artisti in grado di addomesticare il loro cuore oscuro con morbide parentesi pop (scavare in certi Steven Wilson, Depeche Mode ecc.). E’ già successo. Succederà ancora. Amen.
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autore: A.Giulio Magliulo