Anche se ormai entrambi anziani, David Gilmour e Roger Waters sono in questi anni ancora in tour, e quando suonano i loro concerti diventano, per ciò stesso che questi due personaggi rappresentano, storia. Si ha sempre la sensazione di vedere il concerto definitivo, quando suonano con le loro rispettive band il chitarrista e il bassista dei Pink Floyd.
Ma Waters probabilmente ha un passo in più: ed è il messaggio.
L’anima, il creatore, il leader dei Pink Floyd, l’ideatore di Dark Side of the Moon, Animals e The Wall, ha sempre avuto ed avrà sempre qualcosa in più da dire, con la sua musica e con le immagini debordanti e stratosferiche che proietta durante i suoi tour. E’ inevitabile per un uomo segnato sin dall’infanzia dalla guerra. Come tutti sanno, è Waters stesso il Mr Floyd protagonista di The Wall, e questa verità la ritrovi ancora in un concerto come quello dell’Unipol Arena (4 date in pochi giorni) curiosamente celebrato proprio nel giorno della Festa della Liberazione, al termine del quale infatti Waters sfodera una bandiera dell’Associazione Nazionale Partigiani, a dimostrazione che non si è dimenticato di che cosa significa questa data per noi italiani.
Certo, il concerto è una celebrazione di carriera. Non ci si aspetterà dai soli quattro brani del recente Is this the Life we Really Want? esibiti durante la serata, ovvero Deja Vu, The Last Refugee, Smell the Roses, Picture That che la celebrazione possa diventare anche qualcos’altro, ma la celebrazione del leader dei Pink Floyd è una signora celebrazione, e certamente non può che essere un signor concerto.
E’ soprattutto il primo dei due set a essere particolarmente celebrativo, con Breathe, One of these Days, Time/Breathe reprise e The Great Gig in the Sky a dominare la scena iniziale (cosa dire di queste immortali canzoni che non sia già stato detto?). Ma ecco che una splendida, intensissima, potente Welcome to the Machine, pezzo storico ma non certo un classicone, introduce qualcosa che comincia già a non sapere più di solo e semplice revival. E forse non è un caso che proprio dopo questo incredibile capolavoro Roger inserisce tre dei quattro pezzi del suo nuovo album (che per inciso è uno dei suoi più belli fra i cinque da solista che ha inciso), ovvero Deja Vu, The Last Refugee e Picture That, e tutti e tre suonano, in specie l’ultimo, come dei pezzi classici dei Pink Floyd, non stonano di una virgola, e gli spettatori mostrano di apprezzare non poco. Vanno intanto in proiezione i soliti clip psichedelici, che hanno come leit motiv l’esplorazione dei vari paesaggi del globo terrestre da parte di una sfera riflettente, intervallati soltanto dal video, meraviglioso, di The Last Refugee durante l’omonima canzone.
Si ritorna alla celebrazione con il classico dei classici, Wish You Were here, seguita dal trittico più famoso di The Wall (a torto ritenuta dai più una sola canzone) ovvero The Happiest Days of Our Life, Another Brick in the Wall Part II e III, dove per l’occasione compaiono sul palco i bambini di una scuola elementare di Bologna, prima incappucciati e con le tute da ergastolani, poi liberati al suono di “hey Teacher” mentre si spogliano e mostrano una maglietta con scritto “Resist!”, mentre il maxischermo proietta scene di celebrazioni religiose, scuola, e violenza.
Ed è proprio il Resistere! che sarà il leit motiv della seconda parte, decisamente la più sorprendente, la più bella, la più dura, la più politica: si inizia con una interminabile, immensa Dogs, mentre dal centro del palazzetto cala sugli spettatori un binario che proietta su dei maxi schermo la fabbrica celeberrima della copertina di Animals, e poi una serie di immagini inquietanti di cani, e di violenze. Gli undici e più minuti di Dogs valgono da soli il prezzo del biglietto, ma Roger e la sua band di otto elementi ne ha ancora da vendere: seguono Pigs e Money, tutte e due completamente “dedicate” all’icona del male dei nostri tempi, Donald Trump. E’ a questo punto del concerto, infatti, sulle note di Pigs, che gli schermi proiettano satiriche immagini di Trump ridisegnato, e poi citazioni dirette improponibili del presidente americano, fino alla frase di chiusura “Trump è un maiale!”. Con Money c’è ancora Trump sugli schermi, ma anche tanti altri politici dei nostri tempi compreso i nostri Berlusconi e Salvini. Us and Them, invece, proietta immagini di violenza, resistenza, e bambini martoriati dalle guerre. Intanto, l’antico e celebre pallone a forma di maiale (per l’occasione rinnovato e guidato da un drone, con la scritta Pinky Bank of War) scorazza per il cieli coperti del palazzetto, sulla testa degli spettatori che in questo momento dello show non sanno più letteralmente dove guardare, fra la band sul palco, le immagini sugli schermi al centro del palazzetto, e ciò che succede in alto, nell’aria. E’ un trionfo, un autentico tripudio di suoni, immagini, suggestioni, emozioni fortissime.
Mai messaggio poteva essere più chiaro: Us and Them, noi da una parte, gli spettatori e la band, uniti dall’amore per la musica (lo dirà al termine con parole esplicite lo stesso Roger) e loro, i politici, uniti dalla sola ricerca del potere e del denaro.
E’ retorica? Forse. Sicuramente è nostalgia: Roger Waters ha detto queste cose da quarant’anni a questa parte, quindi non è falsità. Semmai, ci si aspetterebbe da un intellettuale come lui una lettura attuale del mondo che andasse oltre la schematica contrapposizione fra la gente, i buoni, e i politici, i cattivi. E questa forse è l’unica critica che si può muovere al messaggio politico di questo show.
Il quale prosegue con Smell the Roses, e poi con la indimenticabile conclusione con Brain Damage e Eclipse, mentre dei proiettori improvvisi di luce al laser disegnano all’interno della parte avanzata del parterre sulla testa degli spettatori il prisma colorato di Dark Side of the Moon.
Ovviamente non poteva non esserci il bis con Mother e Comfortably Numb, ancora da The Wall. Su Mother, alla frase “Mother should I trust the Government!” il maxischermo risponde con un sonoro COL CAZZO! in italiano. Ed allora ecco piovere nel finale dal tetto bigliettini con la scritta Resist! a ribadire ancora il concetto, se ce ne fosse bisogno, mentre l’immortale Roger scende dal palco e va a salutare le prime file, e poi torna su per gli inchini avvolto dalla bandiera dell’ANPI.
Se è vero che qualcuno durante i live americani ha abbandonato lo show per l’irriverenza verso Trump, e anche vero che questo è ed è sempre stato Waters. Prendere o lasciare.
E con una musica così, che si ha ancora l’occasione di sentire dal vivo, la risposta non pone alcuni dubbi. Grazie, eterno, indimenticabile Mr Floyd.
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autore: Francesco Postiglione
SET 1
1. Breathe
2. One of these days
3. Time
4. Breathe (reprise)
5. The greag gig in the sky
6. Welcome to the machine
7. Déjà vù
8. The last refugee
9. Picture that
10. Wish you were here
11. The happiest days of our lives
12. Another brick in the wall (part 2)
13. Another brick in the wall (part 3)
SET 2
14. Dogs
15. Pigs (three different ones)
16. Money
17. Us and them
18. Smell the roses
19. Brain damage
20. Eclipse
BIS
21. Mother
22. Comfortably numb