L’undicesimo disco (compreso un Ep) del quartetto pisano, ma che vive a Livorno, è quello a cui il gruppo ha lavorato più lungo, addirittura da maggio del 2016. Vale a dire quattro mesi prima che uscisse “La terza guerra mondiale”. “Il fuoco in una stanza”, viene pubblicato a vent’anni dal loro esordio e ha dei passaggi che fanno pensare ad un bilancio non tanto della loro carriera quanto dell’essere giunti, più o meno, ad un’età fatidica; vale a dire i quarant’anni. Si tratta, infatti, di un lavoro complesso e variegato nel quale il gruppo esprime da un lato il disincanto ed un certo (sano) cinismo, che lo ha sempre caratterizzato, dall’altro unendo il personale e il sociale sviscerando i rapporti affettivi ed esponendo i loro sentimenti mediati dall’ottima penna di Appino e da un sound pop-rock carico e con molte variabili.
Il disco è molto ricco. I tredici i brani in scaletta, spesso verbosi e con tante metafore, parlano delle loro relazioni, o come dicono loro stessi, “parlano degli altri parlando di se stessi. E viceversa”. L’intensità di questi brani emerge anche grazie al fatto che il gruppo ha avuto la maturità e la capacità di riuscire a fare un importante lavoro introspettivo grazie al quale hanno preso consapevolezza una volta per tutte dei loro percorsi identitari determinanti per il loro modo di essere. Così hanno deciso di parafrasare il famoso brano di Gino Paoli e mettere al centro dell’attenzione il fuoco che arde le relazioni più importanti. Già con il primo brano, “Catene”, dedicato alla nonna, ex prostituta, morta, Appino continua con la sua terapia catartica di esternare le turbe familiari giungendo a dire che, anche se sembra brutto, da quando non c’è più il padre sta meglio. È il brano emotivamente più forte e carico, perché parla di un amore familiare tragico e magico al tempo stesso, e di come questo amore ha contribuito non poco a fargli intraprendere la carriera musicale.
Con “La stagione” gli Zen ci fanno fare un viaggio malinconico nel passato, nel quale si fanno portavoce della rivendicazione delle sofferenze giovanili, ma con la maturità dei quarantenni, quindi senza essere giovanilisti, retorici o patetici, dato che il dolore di cui parlano, appartiene anche a loro.
Appino poi si lascia andare ad una sorta di flusso di coscienza nella vorticosa “Il mondo come lo vorrei”, nella quale impera il disincanto con tanto di orchestra e di cori che evocano gli anni ’70. “Sono umano” è un bell’esercizio semantico perché al centro di questo brano pop-punk c’è l’ossimoro della morte del consumismo e dell’essere cool e mondani a tutti i costi oltre all’invito di andare a ballare all’obitorio.
La title-track è in linea con l’esistenzialismo de “L’anima non conta”, quindi con un ottimo piglio cantautorale. Se con “Low cost” e “Emily no” il quartetto si lascia andare ad un pop-rock un po’ pomposo e barocco, da “Rosso o nero” si cambia registro stilistico recuperando un certo pop-rock-punk, scoppiettante e melodico, nel quale esprimono più che altrove il passaggio alla vita adulta. Sanno di essere sopravvissuti allo schifo degli anni ’80 – e alle varie mode che passano – con la consapevolezza che e a una certa età bisognerebbe smetterla di essere in ansia per l’effimero, soprattutto se l’hype finisce.
Le successive “Quello che funziona”, “Panico” e “La teoria delle stringhe” sono caratterizzate da un massiccio post-punk, spesso carico e a volte enfatico, in accelerazione. La chiusura è dedicata ad una lettera aperta nella quale emerge un’enorme malinconia suonata con pianoforte e con un’orchestra (Caro Luca). Un disco molto maturo, forse di passaggio, che comunque lascerà il segno.
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autore: Vittorio Lannutti