Assago ingiustamente non sold out dopo uno spettacolo degno di un pienone. I Sigur Rós non hanno bisogno di artifici per incantare.
Palco ristretto e effetti scenici minimal. I protagonisti soltanto loro, i Sigur Rós, che grandi, hanno mostrato come tre elementi possano aprire il varco ad una nuova dimensione, tutta nuova, inaspettata.
Niente gruppo di apertura, ma due ore ben delineate e scandite, divise da una pausa di 20 minuti esatti, in cui il frontman Jónsi, armato del suo archetto da violoncello, usato sulle corde della chitarra, ha deliziato il pubblico con le sue note acute, eteree che a tratti si fondevano ad un sofisticato synth.
“Mi aspettavo qualcosa di differente” è una frase che spesso presagisce un commento negativo. Non questa volta.
Niente dimensioni e luoghi specifici, l’astrazione principia con Á e siamo di notte nei boschi piovosi del nord, nubi nere e fulmini violacei appaiono sul palco, contrastano con la voce pulita e rassicurante di Jónsi, accompagnata da una batteria leggera e cadenzata. E lasciano spazio a tante lucciole sul palco, che continuano lungo il parterre, i cellulari degli spettatori. Ekki Múkk viene evocata, l’archetto passa lento sulla chitarra, le note vanno in risonanza con i brividi a fior di pelle. L’atmosfera diventa calma e distesa, come quiete dopo la tempesta, preannuncia il risveglio, Glósóli. I toni ipnotici del basso evocano sonorità metal, grazie al perfetto connubio tra delay e overdrive. L’atmosfera nuovamente cupa annuncia E-Bow, torna la foschia che porta con sé fragranza di new wave e post punk. Ed arriva il tormento che termina con la distorsione elettronica. É alto il contrasto, con le successive note dolci di pianoforte, i Sigur Rós tornano ad esser i timidi angeli d’apparenza, pur essendo degli dei norreni in sostanza, che ci trasportano nel Valallah con Fljótavík.
Nidur racchiude rievocazioni mistiche, un’ode dal carattere puramente elettronico, suggestione che prosegue con Varda, si ritorna nel bosco fiabesco ed impalpabile. É così che termina la prima parte del live.
Óveður, singolo del 2016, apre il secondo atto ricco dei pezzi più amati. Lampi partono dal palco, che si intensificano con la scintillante Sæglópur. Alle spalle del trio uno sfondo ricorda la notte stellata del Van Gogh. D’improvviso esplode in una carrellata di luci e colori, l’esplosione di una supernova vista dall’interno.
L’energia sprigionata fluisce in Ný Batterì, qui la furia degli dei norreni è accompagnata da una singola luce pulsante su Jónsi e l’archetto convulso sulla chitarra. L’aria si distende e siamo immersi in un puro new wave malinconico che non si discosta molto dai colleghi Mogway.
Scie di luci proiettate sul pubblico al ritmo della tormentata batteria. L’archetto frenetico sulla chitarra, deleay di basso “sporco”, distorsioni, batteria indomabile, note libere, siamo in un canto di guerra.
Luci rosse e torna il calore. La frenesia è messa da parte con Vaka, il piano è di nuovo protagonista insieme alla loop station che prosegue fino alla successiva Festival, fluida come gocce di pioggia alla finestra, intervallata da una nota di Jónsi, lunghissima ed estremamente acuta che sbalordisce il pubblico, ammutolito. I Sigur Rós continuano con tocco più indie, che ricorda un po’ i primi Editors di “Let your good heart lead you home”. Più dolci, in crescendo culminano in un caleidoscopio di luci, suoni e colori sul pubblico.
Siamo quasi al termine e nel penultimo brano, Keveikur, la band torna ad esser più cattiva. Si immerge nel post punk, con un basso quasi del tutto protagonista, cadenzato tanto da richiamare i Tool, cattivo quanto il metal, sottolineato dalla batteria. Il risultato è una ricerca spasmodica e tormentata.
Popplagið, segna il termine perfetto del concerto, schizofrenica nella sua essenza. Note piene di chitarra preannunciano l’eclissarsi della placidità iniziale, il basso prende il sopravvento, ossessivo e disturbante. Il ritmo degenera nel canto acuto, la commistione sfocia in un suono dark delirante sovraccarico di tensione. Ed eccola la fine perfetta.
I Sigur Rós hanno la capacità di far tacere con il loro linguaggio universale e fiabesco, che imponente, trascende la non conoscenza stessa dell’idioma. Non comprendere le parole è un concetto che viene superato.
I Sigur Rós ipnotizzano, incantano con il loro fare etereo ed angelico il pubblico è trasportato, ascolta in religioso silenzio e l’attenzione è tutta rivolta al trio. Non c’è artificio, non c’è inganno, resta solo l’incanto e lo stupore per una band mai banale, che non riesce a deludere e che mantiene costante i brividi a fior di pelle.
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autrice: Noemi Fico