Per una band anticelebrativa quantomai, che da 15 anni rinnega e cerca di distruggere musicalmente tutto quello che ha creato nei primi tre dischi, ristampare l’album più famoso in occasione dei 20 anni del disco sarà stata una costrizione da sudore e sangue.
Eppure, sarà che forse gli anni passano anche per loro, c’era già sentore di ritorno all’indietro nell’ultimo tour, che invece di celebrare a dovere l’ultimo deludente (di nuovo deludente) disco A Moon Shaped Pool, ha riportato alla luce dal vivo alcuni brani vecchi e rinnegati, persino Creep tra gli altri, dando ampio spazio proprio a Ok Computer. Una premessa dell’operazione rilancio?
Chi lo sa, sta di fatto che l’operazione è fatta bene. Con OKNOTOK 1997-2017 i Radiohead regalano ai fans attraverso la XL RECORDINGS una ri-edizione del disco più noto con ben otto B-sides e, (sogno di ogni collezionista dei Radiohead), tre inediti dell’epoca, fin qui praticamente introvabili, I Promise, Lift e Man Of War. Finalmente le registrazioni in studio originali di questi brani, risalenti all’epoca e a lungo ricercati, trovano la loro prima pubblicazione officiale su OKNOTOK, uscita il 23 giugno in coincidenza o quasi con le date della uscita originale di venti anni fa.
Nella versione Boxed Edition c’è una scatola nera con un’immagine scura di una copia bruciata di OK COMPUTER, e tre vinili neri 12” di 180 grammi, un libro con copertina rigida contenente oltre trenta opere d’arte (molte mai viste prima) e i testi di tutti i brani. E ancora: un quaderno con 104 pagine di appunti di Thom Yorke dell’epoca, un libretto di bozze con 48 pagine di schizzi di Donwood e Tchock oltre ad un mixtape su cassetta C90 compilato dalla band e tratto dagli archivi delle session e dai demo tapes per OK Computer.
Tanto materiale da collezione, insomma, che per loro è cosa rara. Rara ma giusta, perché i vent’anni di Ok Computer vanno festeggiati a dovere.
Pubblicato originariamente in date varie a partire da maggio fino a luglio 1997, prodotto dalla band e da Nigel Godrich, l’album con i singoli Paranoid Android, Karma Police, Lucky e No Surprises, è certamente il più importante loro lavoro. Ok Computer è stato anche il primo disco dei Radiohead a raggiungere il primo posto in classifica in UK ed è stato nominato Album Of The Year ai Grammy Awards. Nel 2015, The National Recording Registry ha selezionato OK COMPUTER per essere preservato nella Biblioteca del Congresso come registrazione che si è dimostrata essere “culturalmente, storicamente e esteticamente significante”.
Proviamo a spiegare perché tutti questi riconoscimenti: Ok Computer è forse cronologicamente l’ultimo disco che si può annoverare fra quei capolavori che meritano di stare in un’antologia dei 100 dischi rock più importanti di ogni tempo. Dopo quel disco, dal 1997, non viene davvero in mente molto altro che meriti di stare in un libro del genere.
Con Ok Computer i Radiohead non solo consacrarono la loro ascesa musicale, ma realizzarono in maniera originale la fusione fra il percorso tecnologico-satirico-critico-retorico della nuova musica rock anni ’90 (inaugurato dagli U2 di Achtung Baby) e quello della protesta anti-global del movimento grunge: con canzoni come Airbag, Filter Happier, Karma Police, No Surprises, Paranoid Android, Let Down, davvero i Radiohead sembrano fondere gli U2 di allora ai Nirvana, la disperazione e la depressione alla parodia critico-televisiva dei megashow, della TV dominante, dei grandi trust mediatici omnifagocitanti, festeggiando, a colpi di grande e geniale musica, il trionfo del non-sense persino dove nessuno si immaginava che potesse arrivare: nell’intimo di ogni coscienza, inaugurando così lo straordinario nuovo capitolo della “musica dissociata” di questi incredibili artisti. I loro due ottimi album di esordio, Pablo Honey e The Bends, erano ancora semplicemente due meravigliosi dischi rock. Ok Computer però è altro, può definirsi il Dark Side of the Moon degli anni ’90, per contenuti e stile di ispirazione. È un album volutamente magmatico, psichedelico, un sottile inno alla follia e alla paranoia viste come valvola di fuga da un mondo impazzito e inaccettabile. Tom Yorke si fa qui definitivamente icona di questo “elogio della follia” postmoderno, inventandosi tonalità e interpretazioni da brivido, e regalando, anche dal vivo nei live di allora, momenti di rara emozione per la sua totale capacità di fusione con la linea musicale che gli fa da base, che sembra proiettarlo verso mondi infinitamente lontani e dissociati dal palco sul quale si esibisce. È il ritorno dei personaggi folli e psicopatici di floydiana memoria. E non sarebbe finita lì: con il quarto stupendo album, Kid A, i Radiohead, coraggiosamente, si spingeranno oltre il limite dell’equilibrio fra questa personale ricerca di stile e le esigenze del mercato discografico, offrendo un prodotto ben poco commerciabile, un collage di esperimenti musicali piuttosto che canzoni, dove spiccano le sonorità della title track, ispirata all’idea della prima clonazione umana, e soprattutto di How to Disappear Completely, inno definitivo di Yorke alla scelta dell’eclissamento dal mondo.
Le altre canzoni, esplicite sin dai titoli (In Limbo, Everything in its right place, Idioteque) completano il quadro tracciato sin da Ok Computer sul mondo attuale secondo la Yorke-visione. Fra OK Computer e KID-A i Radiohead realizzano qualcosa di storico, sia nel senso dell’importanza del panorama musicale rock di ogni tempo, sia nel senso di catalizzare quel periodo storicamente difficilissimo, gli anni ’90, tutto teso fra crollo del Muro (e delle certezze del mondo bipolare), avvento delle guerre etniche (Ruanda e Bosnia e Cecenia), protesta No-Global contro Nike, Disney e Wall-Mart, e avvento delle guerre televisive e tecnologiche (Iraq 1 e 2).
C’è tutto questo nella paranoia e nella follia di Subterranean Homesick Alien o in Paranoid Android: ma c’è ancora di più, perché i Radiohead più che fare un album politico fanno un album sociologico, che descrive l’avvento di quello che è poi il mondo di oggi, tutto chiuso e represso fra tecnologie che invece di mettere in comunicazione isolano e alienano: “Trasporti, autostrade e linee tramviare, tutto un partire e un fermarsi, calpestando cocci di bottiglia, ed è così deprimente – depresso e girovagante, precipitato dentro un buco nel suolo”, così canta Tom Yorke in quello che forse è il pezzo più bello e sottovalutato, Let Down.
Musicalmente, se con Kid-A si spingeranno ancora oltre, c’è da dire che è con OK Computer che i Radiohead trovano il micidiale equilibrio fra melodia, strumenti suonati (chitarre in primo luogo) e elettronica, effetti e computer usati per generare quel sound che diventa da qui il loro marchio di fabbrica, ovvero la nuova psichedelia anni ’90. Del resto il nome stesso, OK Computer, venne alla band proprio per la sorpresa di scoprire che l’elettronica e la musica “da tavolo” non suonata direttamente poteva riservare grandi percorsi inesplorati, mentre fino ad allora i Radiohead erano forse già un po’ alienanti in certe produzioni (My Iron Lung, per esempio) ma ancora tanto melodici e “classici” nel loro sound di chitarre elettriche o acustiche (Fake Plastic Trees, High and Dry, Street Spirit sono tre singoli di The Bends che oggi si farebbe fatica ad assegnare ai Radiohead, per quanto intatti nella loro bellezza).
Di OK Computer il minimo che si può dire è che 20 anni fa creò o almeno consacrò un genere, l’alternative rock, che fino ad allora viveva di nicchia e per tentativi (Jeff Buckley, e poco altro), regalando agli anni ’90 l’altra gigantesca autostrada del rock planetario oltre a quella del grunge. E che è il concept-album più vicino a quanto ancora vent’anni prima i Pink Floyd fecero con Dark Side ma anche con The Wall e Animals (tre dischi che Yorke e compagni hanno macinato come le suole delle loro scarpe, prima di scrivere OK Computer, e si sente).
Dopo, con Kid-A ancora altro genio, magari più difficile da comprendere ma ancora genio: poi una involuzione di melodie, una quasi scomparsa del rock, con Amnesiac, un improvviso barlume ritrovato in alcuni brani di Hail to the Thief (troppo pochi) e soprattutto di In Rainbows, e poi infine la definitiva deriva verso un incupirsi e intestardirsi in qualcosa che un amante del rock, benché alternativo, fa fatica a comprendere, come King of Limbs e A Moon Shaped Pool, due dischi in cui le migliori qualità dei Radiohead, ovvero la batteria di Phil Selway, il genio chitarristico ed effettistico di Jonny Greenwood e la voce potente e suggestiva di Tom Yorke semplicemente si prendono una vacanza: solo loop di batterie sempre uguali a se stesse, pianoforti ed organi, e un falsetto insopportabile quasi quanto quello di Chris Martin.
Un talento, quelli dei Radiohead, che ancora c’è e si avverte, ma sembra che i membri della band vogliano apposta soffocarlo, perché non appagati e quasi vergognosi di confermare meraviglia e successo con queste qualità.
Ecco anche perché riascoltare OK Computer arricchito da 11 quasi-inediti fa bene, e fa bene alla musica (speriamo faccia bene anche a loro): da questo punto di vista gli otto lati B e i tre inediti non aggiungono molto (né potevano farlo, trattandosi di album perfetto) alla grazia e alla gloria delle canzoni di OK Computer. Molte sono costruite su sonorità che sono anche precedenti alla svolta elettronica del disco, e riecheggiano da vicino (come è giusto che sia per degli esperimenti poi scartati) passaggi di canzoni famose della band del periodo pre-OK Computer, il periodo cioè di My Iron Lung, Just, Bones, The Bends, come Man of War, Lift, Palo Alto, Polyethylene, Meeting in Aisle. C’è dell’aria nuova, invece, in Melatonin, A Reminder, nella splendida ballata al piano How I Made My Millions, ma soprattutto in I Promise, Lull e Pearly, con I Promise in particolare che si avvicina persino a cose recentissime come Burn the Witch, ma salvando melodia e chitarre a differenza dei Radiohead attuali.
Aria nuova dunque persino rispetto alle sonorità che finiranno nella versione definitiva di Ok Computer, ma pur sempre aria dei Radiohead di allora, che suonavano strumenti veri, con Yorke che non aveva vergogna di cantare come sa fare, con Greenwood a pieni poteri fra chitarre e sintetizzatori. Quei Radiohead insomma che non torneranno più, diciamocelo, da quando si sono involuti. E perciò è tanto più giusto e opportuno ricordare e celebrare l’ultimo grande disco fra i grandi della storia del rock, che poteva essere generato solo da una grandissima band nel massimo della sua espressione artistica, nel pieno dell’ispirazione poetica e nel mezzo di un decennio politicamente e socialmente difficile e oscuro come pochi. Così nascono le opere d’arte.
www.OKNOTOK.co.uk
www.radiohead.com
autore: Francesco Postiglione