Il recente e inaspettato sovvertimento di equilibri nel mercato discografico italiano ci sta mandando un po’ tutti in confusione. Si legge dei Thegiornalisti che hanno “ucciso l’indie”, del moniker Liberato che fa “colonialismo musicale”, di piccole etichette che diventano grandi e di artisti di nicchia che diventano di massa. La povera musica italiana, piuttosto che unire il pubblico sotto l’egida comune di un ringiovanimento che sta passando per quasi tutti i generi, diventa il ring per le classiche scazzottate di opinioni. Nel frattempo, tra emersioni di artisti ex-indipendenti già noti e non ad un certo pubblico, si comincia ad avere qualche difficoltà a discernere il prosaico e il banale da ciò che non lo è.
Non bisognerebbe dimenticare che l’Italia ha sfornato band di una qualità impressionante negli ultimi venti anni, in particolare sul fronte psych-rock e shoegaze. Qualche nome? I Julie’s Haircut, Sonic Jesus, quei carrarmati dei Klimt1918, in alcuni periodi anche Giardini di Mirò e Verdena. E mentre siamo lì a battibeccare sull’indie italiano, non ci rendiamo conto di alcuni marchi di fabbrica che difficilmente hanno tradito le aspettative in tempi recenti. Uno di questi piccoli colossi sono – senza ombra di dubbio – i Cosmetic.
Il trio (inizialmente quartetto) romagnolo bazzicò per ben dieci anni i locali della penisola con live e demo che li portano gradualmente sotto la lente de La Tempesta Dischi, la quale, infiammata dall’alito sputafuoco dello squalo di “Sursum corda”, li mise sotto contratto e da quel momento furono solo gioie: da “Non siamo di qui” a “Nomoretato” i Cosmetic mettono appunto una crescita sonora e lirica, permettendo loro di passare da un aspro noise/shoegaze ad uno smussato e profondo alternative rock (senza scadere nemmeno un secondo).
Con “CORE” il trio decide di continuare a mutare. Basta atmosfere sintetiche ed effetti dal tocco dreamy e giù di chitarre e percussioni grezze e ruvide. Si parte da “Fine di un’epoca” che resta l’ultimo trait d’union con i dischi precedenti (insieme alle divagazioni strumentali di “In nero”): ritmi ancora sostenuti, voce soffice, linee strumentali possenti. Uno shoegaze melodico e facile da digerire. Non si può dire lo stesso delle tracce successive: “Schiaffo” (hardcore melodico degno degli ultimi Husker Du), “Tamara” (ensemble eccellente di noise e grunge tra Mudhoney e Nirvana) e “Schiaffino!” (breve cavalcata raw con voci “strizzate”) accelerano fuori misura i ritmi classici del trio. “Paura del principio” e “La linea si scrive da sola” si adagiano sui toni dell’emo di un paio di decadi fa, soffrendo tuttavia una lieve caduta nei testi. Bart, Mone ed Emily svelano il core dei loro miti: l’hardcore punk, la culla tanto del noise, quanto del grunge e dell’emo-core. Un po’ outsider restano “Quel poco di buono (che avevi fatto)” e “1986”, che ammiccano più ai The Pains of Being at Pure Heart.
Tralasciando qualche lirica fin troppo “pop”, quali le dissertazioni sul cuore, il diventare adulti, piccole paure e contraddizioni, i Cosmetic mettono la firma in calce ad un altro validissimo lavoro. Una testimonianza di una band con solidi riferimenti nel passato, ma ancora desiderosa di sperimentare, provare e stupire, mantenendo pur sempre una sedimentata identità artistica.
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autore: Gabriele Senatore