C’è un paradosso, sociale ed urbanistico, in giro per il mondo. A fronte di un aumento costante della popolazione mondiale, e quindi della crescente necessità di cibo per nutrirla, la spinta demografica verso le grandi città (ed il conseguente abbandono delle campagne, cioè dei luoghi ove il cibo si produce) prosegue imperterrito.
Si tratta ovviamente di un fenomeno che risale agli albori della civiltà umana – essendo la città stessa un modello abitativo che prende forma al passaggio tra popolazioni di cacciatori/raccoglitori (per forza di cose nomadi), a popolazioni di allevatori/agricoltori (per conseguenza stanziali). Fondamentalmente, quindi, la ‘domesticazione’ di alcune piante alimentari – in altre parole, la nascita dell’agricoltura – è il fondamento strutturale su cui poggia la nascita di aggregazioni umane di considerevole dimensione.
Ma, nello sviluppo della storia umana, il rapporto città/campagna ha mantenuto, per secoli, un rapporto di equilibrio, di ‘mutualismo’: nella città si accentrano le funzioni amministrative, e la produzione di beni materiali (artigianali prima, industriali poi), mentre la campagna provvede alla produzione alimentare.
Già con la rivoluzione industriale, però, questo rapporto tende a squilibrarsi. Per una serie di ragioni, prima tra tutte la necessità di forza lavoro ‘concentrata nello spazio e nel tempo’, tipica appunto della produzione industriale, che funge da fenomenale attrattore verso i centri urbani.
Questo processo centripeto, pur con fasi alterne, ha da allora mantenuto un flusso costante, con il conseguente depauperamento della produzione agricola.
La recente rivoluzione digitale, con la sua più rilevante conseguenza sociale, ovvero la globalizzazione, ha introdotto nuovi elementi nella dinamica socio-economica mondiale, primo tra tutti la mobilità.
La mobilità dei capitali finanziari, innanzi tutto. La mobilità delle merci. La mobilità delle persone (purché per ragioni non stanziali…). La mobilità delle produzioni.
L’estrema mobilità delle merci, ha come conseguenza una concorrenza feroce sui mercati mondiali, anche per quanto riguarda il cibo. Mentre fino a pochi decenni orsono il cosiddetto “chilometro zero” era la norma, o quasi, adesso consumare abitualmente cibo prodotto anche a 1000 e più chilometri di distanza è cosa del tutto normale. Perchè, nonostante i costi del trasporto, quelli di produzione rimangono talmente bassi da poter esercitare un ‘dumping’ concorrenziale, tale da stroncare le produzioni locali (nei paesi ‘avanzati’). Spesso la produzioni alimentari europee sopravvivono solo grazie agli aiuti comunitari.
D’altro canto, anche la produzione industriale è divenuta estremamente ‘volatile’, traslocando velocemente laddove sussistono condizioni in grado di garantire maggiori profitti (bassi salari, tassazione favorevole, etc). E la terza rivoluzione industriale, quella della robotica (ormai già in essere), non farà che rendere ancora più semplice la mobilità produttiva.
La globalizzazione, dunque, e più in generale la rivoluzione tecnologica che ne è alla base, produce al tempo stesso le condizioni per la contrazione dell’industria e dell’agricoltura, come settori occupazionali primari.
Un fenomeno, questo, al quale non può far fronte la crescente domanda occupazionale nei servizi – i quali, a loro volta, ed a partire dalla logistica, già vengono erosi dall’automazione meccanica ed algoritmica.
Insomma, verrebbero meno le spinte urbanocentriche. Verrebbero, ma ciò nonostante la spinta verso la polis permane.
Siamo anzi – ormai gia da qualche decennio – in una fase ulteriore, quella delle ‘magalopoli’. Aree urbane che contano una popolazione superiore a quella di interi stati, e che spesso racchiudono gran parte della popolazione dello stato in cui si trovano.
Dalla città-monstre della Grande Area urbana di Tokio (oltre 37.000.000 di abitanti), ai 24 milioni di Shanghai, Città del Messico e Karachi, a Pechino, Mumbai, New York, Seul, San Paolo (per restare a quelle con almeno 20 milioni di abitanti).
In queste moderne città-stato, in cui si concentra non solo una fetta considerevole della popolazione, ma soprattutto il potere (economico-finanziario, politico, informativo e comunicazionale), si giocano i destini dell’umanità. Non solo perchè, appunto, sono qui i centri del potere decisionale, ma perchè è su questo terreno che si sperimentano le nuove forme sociali.
Anche la società ‘post-umana’, quella ad alta robotizzazione, necessita che la popolazione sia concentrata. Ieri prevalentemente in quanto produttori, oggi e domani soprattutto in quanto consumatori.
La logistica del futuro prossimo (dai mega magazzini robotizzati di Amazon, alle consegne via drone, ai taxi volanti di Uber…), ovviamente predilige un mercato-target ad alta densità, che renda ottimizzabile al massimo la gestione del movimento merci e/o dell’erogazione dei servizi.
Grandi città ‘connesse’, sempre più governate da algoritmi, è il modello verso cui – tra mille contraddizioni – sembrano orientarsi le ‘scelte’.
Se di scelte si può parlare – o meglio, se se ne può parlare in senso ‘democratico’, come risultanza di un processo orizzontale, partecipato e condiviso. Laddove invece siamo in presenza più che altro di un processo ‘automatico’, in cui è lo sviluppo tecnologico (e l’uso che ne fanno le grandi imprese multinazionali) a fare da battistrada, a tracciare ‘la linea’. Ed a cui gli altri ‘attori’ sociali (il ceto politico, ma anche i cittadini stessi), finiscono semplicemente per accodarsi supinamente.
Ma in quelle mille contraddizioni si racchiude, in ultima analisi, la possibilità di caratterizzare questo ‘sviluppo’ in un senso piuttosto che in un altro.
Anche l’idea della smart city, che tanto sembra sedurre, si presta a differenti chiavi di lettura.
Nella definizione di Wikipedia, “la città intelligente (dall’inglese smart city) in urbanistica e architettura è un insieme di strategie di pianificazione urbanistica tese all’ottimizzazione e all’innovazione dei servizi pubblici così da mettere in relazione le infrastrutture materiali delle città «con il capitale umano, intellettuale e sociale di chi le abita» grazie all’impiego diffuso delle nuove tecnologie della comunicazione, della mobilità, dell’ambiente e dell’efficienza energetica, al fine di migliorare la qualità della vita e soddisfare le esigenze di cittadini, imprese e istituzioni.”
Sembra un programma bellissimo e condivisibile, ma – il diavolo si nasconde nei dettagli… – in quelle ultime tre parolette ci sono tutte le contraddizioni di cui si diceva. Cittadini, imprese e istituzioni, infatti, hanno esigenze diverse, e spesso conflittuali.
La smart city, dunque, può rappresentare esiti diversi (pur nel quadro su descritto), in base a come il conflitto tra interessi ed esigenze diverse viene di volta in volta ‘risolto’. Perchè, ovviamente, la presenza di interessi confliggenti non può essere risolta in via definitiva, ma è una dinamica costantemente in essere, che muta con il mutare delle condizioni oggettive e soggettive. E, del resto, il conflitto è ciò che rende dinamica la società umana, che ne determina i cambiamenti. Una società che ‘risolvesse’ ogni conflitto, più che una società felice sarebbe una società ‘sterile’.
Più che di smart city, dovremmo parlare di blob city. Un agglomerato che cresce continuamente, quasi sempre in modo informe; un sistema abitativo e sociale energivoro, che attrae a sé / in sé tutte le energie (anche e soprattutto quelle creative, intellettuali, oltre a quelle produttive ed economiche). Al vecchio modello città/campagna, basato su un dualismo mutualistico, su uno scambio reciprocamente conveniente – e sostanzialmente equilibrato – si sostituisce il modello centro/periferia, tutto interno all’area urbana, basato su un dualismo parassitario, su uno scambio ineguale.
La periferia non un modello socio-abitativo ‘altro’, rispetto alla città-centro, come lo era la campagna; la periferia è la città depauperata e marginalizzata, il ‘deposito urbano’ della città.
Le ‘blob cities’ contengono una realtà a macchia di leopardo, con aree giallo oro ed altre nero carbone. E questa struttura è per di più in perenne mutamento, attraverso processi di gentrificazione ed espansione continui, che spostano le ‘macchie’, rendendo ancor più difficile la ‘solidificazione’ di processi conflittuali.
La mobilità, è utilizzata per depotenziare e frastornare i soggetti potenzialmente attori di conflitto.
La divisione centro/periferia, è uno degli elementi che rafforzano la struttura sociale verticale ‘bloccata’, in cui la mobilità sociale è l’unica forma di mobilità ad essere ingessata. Il gap scolastico e culturale che separa la popolazione urbana, e che tra l’altro è uno degli ostacoli ad una effettiva possibilità di realizzare delle vere smart cities, e non – ancora una volta – delle mere ‘smart areas’ all’interno del tessuto urbano, è uno dei fattori che impediscono lo sviluppo armonico delle megacittà, delle grandi aree metropolitane.
L’altro fattore (strettamente connesso) è quello della partecipazione attiva. Il coinvolgimento pieno e consapevole della cittadinanza, nei processi decisionali e di pianificazione, è un elemento fondamentale per caratterizzare lo sviluppo urbano, sottraendone la definizione di tempi e modi al controllo esclusivo degli stakeholders più forti culturalmente ed economicamente.
Se non si avviano processi in grado di mobilitare energie conflittuali, che attraversino l’intera area urbana, si affermerà sempre più la ‘forma’ delle blob cities, grandi territori urbanizzati, caratterizzati da grandi diseguaglianze. Se, viceversa, si riesce a restituire protagonismo ai cittadini (quanti abitano e vivono la città), sarà possibile gettare le basi per una forma socio-urbanistica policentrica, non più radiale (centro-periferia) ma reticolare, capace di recuperare una dimensione ‘umana’ dell’abitare urbano, e – quindi – di progettarne e realizzarne la trasformazione in smart city.
Intesa non tanto come ‘città intelligente’, ma come ‘città delle intelligenze’.
autore: Enrico Tomaselli