Su Caroline International, distribuzione Universal, è uscito in questi giorni l’ultimo disco dei Bush, una delle band più tribolate nella storia dei continui scioglimenti e ricostituzioni.
Fondamentalmente costruita, e tuttora fondata, intorno al carismatico Gavin Rossdale, la band, inattiva dal 2002 al 2010 (durante questo periodo Rossdale ha provato ad avviare il progetto Institute) vede oggi Chir Traynor alla chitarra, Corey Britz al basso e tastiere, e a rappresentare il legame con le origini il batterista dei primi tempi, Robin Goodrige.
Black and White Rainbows è il terzo disco, dal 2010, dopo la rinascita. Con questo, sembra che i Bush vogliano cambiare strada rispetto al tradizionale post-grunge che li ha fatti conoscere al grande pubblico (erronea la loro etichetta di allora come band clone dei Nirvana, sin dal primo disco i Bush si collocavano come post-grunge più che grunge puro.
In effetti si ricercano sonorità più solari e melodiche, ma il risultato è che sono soltanto più commerciali, senza guadagnare in creatività o originalità. Nemmeno l’elettronica del bellissimo The Science of Things, con cui i Bush abbandonavano la rudezza dei primi suoni, sembra più essere presente.
Dal punto di vista strumentale, infatti, i Bush tornano all’essenziale, con chitarra e bassi, sempre distorti, e dunque il suono assomiglia a quello degli esordi del mitico Sixteen Stone.
Ma dal punto di vista del suono e della riuscita, salvo alcuni isolati pezzi, che vi risulteranno come i pezzi migliori del disco, come Peace-S, Water, Nurse, Dystopia, non c’è traccia dei Bush di una volta.
Ci sono canzoni che si collocano a metà fra il loro vecchio modo di far musica e la nuova direzione melodica e troppo sdolcinata di queste ultime sonorità: per esempio Sky Turns Dat Glo o Ray of Light o ancora Toma Mi Corazon, o il singolo di lancio Mad Love. Queste potrebbero suonare ai fans come gradevoli novità, nel quadro di una ricerca di nuove direzioni. E possono essere salvate.
Ma pezzi come Lost in You, All the Worlds Within You, o The Edge of Love, sono solo una caduta di stile e non si può proprio dire di più per salvarli.
Il disco scorre veloce (nonostante i 15 brani, ma sono tutti fra i 3 e i 4 minuti) fra questi pezzi che si collocano in queste tre categorie, e tutti sono caratterizzati dal classico schema strofa ritornello strofa ritornello, senza alcuna preoccupazione di variazione pura.
La sensazione è che i Bush facciano musica ormai per inerzia, senza avere molto da dire. Eppure, la rabbia di Gavin, in pezzi come Glycerine, Everything Zen, The Chemical Between Us, The People that we Love, aveva prodotto dei piccoli capolavori all’epoca.
Di questi, rimane soltanto la voce, tuttora magnetica ed espressiva, dotata di un timbro unico e riconoscibile. Ma purtroppo questo è l’unico marchio di fabbrica che rimane di tanto talento degli anni passati, a quanto pare.
autore: Francesco Postiglione