autore: Fausto Turi
Sugaring Season, nuova attesa pubblicazione della cantautrice britannica Beth Orton a ben 6 anni e mezzo dal precedente Comfort of Strangers, di fatto prosegue un percorso artistico da anni ben chiaro, tutto sommato ormai senza sorprese – se non nella qualità di alcune vette creative – all’insegna di un classicismo folk e pop cui la quarantaduenne del Norfolk è giunta dopo quasi un decennio – gli anni 90 – da reginetta indie folktronica, e collaborazioni con i Chemical Brothers ed il musicista produttore William Orbit, suo scopritore nel 1993 ed ex compagno di vita.
Il nuovo disco contiene 10 brani di grande eleganza – l’impalpabile ‘Mystery’, la voce, il pianoforte e gli archi in ‘Last Leaves of Autumn’ e l’incantevole crossover celtico e soul di ‘Candles’ – che ruotano intorno ad un folk britannico spiritato, elfico – ‘Magpie’, in odor di Jaqui McShee ed il new folk che punta Joanna Newsom intitolato ‘Poison Tree’ – con anche qualche riferimento alla musica medievale, malgrado il disco – come anche il best seller intitolato Daybreaker del 2002, ed il successivo succitato Comfort of Strangers – esuli dal recinto dei lavori di genere – quelli imprigionati nel polveroso scaffale irish, frequentato nei negozi solo quando scatta l’odiosa moda di genere… – e si proponga come squisito prodotto pop, ad un pubblico vastissimo.
L’incanto folk acustico, infatti, è intervallato da una manciata di brani pop slow tempo generalisti – ‘Something more Beautiful’, ‘State of Grace’ e ‘Call me the Beth Orton rappresenta in questo momento l’altra faccia – quella diciamo così: istituzionale e neoclassica… – del folk pop femminile indipendente ma proiettato ai grandi numeri di vendita, rispetto a Cat Power, anch’ella fuori quest’anno con un disco, intitolato Sun, sicuramente più vitale ma anche tanto disordinato e non completamente privo di brutti episodi; entrambi i dischi stanno talvolta occupando posizioni lusinghiere nelle classifiche dei dischi dell’anno, e vedremo chi la spunterà; fa riflettere però che entrambe siano superstiti degli anni 90.Breeze’, che potrebbero essere brani minori tanto di Lily Allen che di Celine Dion – che di folk mantengono un semplice retrogusto e pur non rappresentando certo la vera vocazione di Beth Orton, né certo la sua cima creativa, riescono sempre a mantenersi decorosi, snelli – la marcetta vaudeville ‘See through Blue’ – proiettando la cantautrice – cresciuta in una fattoria dove i suoi allevavano maiali, vissuta per un po’ in un tempio di suore buddiste in Thailandia, poi cameriera in un Pizza Hut (!?), attrice di teatro, finalmente musicista, e prestata qualche volta anche al cinema – come scrivevamo più su, rende il tutto meno banalmente classificabile.