“Gli artisti si potrebbero dividere in due categorie: i contadini e i cowboy. I contadini si stabiliscono in un pezzo di terra e la coltivano con cura, cercando sempre più valore in essa. I cowboy cercano nuovi posti e sono eccitati semplicemente dalla scoperta […] Io pensavo di essere per temperamento più cowboy che contadino… ma il fatto che la serie (di produzioni) a cui questo pezzo appartiene prosegue da quattro decadi mi fa pensare che ci sia un bel po’ di contadino in me“. Queste sono parole di Brian Eno in persona; più precisamente parole pubblicate sul suo account Facebook il 15 di novembre in occasione dell’annuncio di “Reflections”, ventesimo album in studio per il maestro indiscusso dell’ambient e sequel di “The Ship“, che sarà pubblicato l’anno venturo. Ma Brian Eno è davvero un contadino dell’arte, che coltiva il suo piccolo terreno per concentrarsi sulle proprie piantine? Sicuramente, l’uomo che si è fatto promotore di perle della sperimentazione come “No New York”, ma si è anche spinto verso terreni controversi come in “Drawn From Life”, ha avuto i suoi giorni da cowboy. Però “The Ship” è tutt’altro, non è sperimentazione oltre le frontiere, né tantomeno sterile cura del proprio orticello.
“The Ship” riprende un discorso, iniziato da Brian Eno oltre quarant’anni fa con “Another Green World”, e ne estende le conclusioni aggiungendo le nuove scoperte tecniche e concettuali dell’artista. Come il disco del 1975 includeva la voce distorta, le sovrapposizioni sonore e i presupposti ritmici del genere ambient par excellence, “The Ship” (il cui titolo fa riecheggiare nella mente la possente “The Big Ship”) prosegue quei suoni meditati con la sua title track ad aprire l’album. La suite, nata come sfondo sonoro per la mostra del laboratorio Fylkingen in Svezia, apre le sue porte all’ascoltatore con gravità, per poi innalzarlo gradualmente verso la nuova scoperta di Brian Eno, ovvero il suo canto in “do di petto” (nella nomenclatura anglofona chiamato “low C”). Il brano è ispirato all’immagine del Titanic e, difatti, dalla profonda intonazione di Eno che canta “The Ship was from the willing land”, il brano salpa verso sovrapposizioni sempre più frequenti con voci, interferenze radiofoniche, intermezzi musicali dissonanti, fino a naufragare, positivamente, nelle voci distorte dei personaggi della nave, con tanto di scricchiolio del ponte da sottofondo. Le atmosfere successive evocate dal primo movimento di “Fickle Sun” non fanno altro che accompagnare l’ascoltatore sotto il sole incostante e volubile del viaggio sonoro che Eno ha composto, in cui i momenti melodici si fanno sempre più sporadici e le voci più grottesche. Il secondo movimento di “Fickle Sun”, intitolato “The Hour Is Thin” si pone come breve intermezzo poetico, prima del gran finale: un’interpretazione di “I’m Set Free“, un tributo dai toni narcotizzati dell’originale dei Velvet Underground, che chiude il viaggio del translatlantico nel più liberatorio dei modi, superando eccellentemente anche i suoni più cupi dei brani precedenti.
L’intero disco potrebbe considerarsi la chiusura del discorso, un piccolo testamento che unisce la vena art rock con le profonde sperimentazioni elettroniche, se non fosse che – come scritto poc’anzi – Brian Eno è pronto a sfornare un seguito per “The Ship”. Che voglia fare il contadino o il cowboy, Brian riesce sempre a creare ciò che gli si addice di più: degli “altrove” sonori da esplorare, vivere e abbandonare a malincuore.
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autore: Gabriele Senatore