La regola secondo cui l’arte debba essere per forza complicata trova nell’ultimo disco degli Yeasayer l’ennesima e in un certo senso confortante smentita. A parte alcuni picchi obiettivamente originali e sorprendenti, con “Amen & Goodbye” Chris Keating (voce e tastiere), Anand Wilder (voce e chitarra) e Ira Wolf Tuton (basso) giocano troppo con loro stessi e finiscono per non andare oltre il manierismo più sordo e autoreferenziale.
La sensazione che si ha ascoltando le 9 canzoni e i 4 intermezzi “artistici” del disco della band di Brooklyn, è infatti quella di trovarsi di fronte all’ennesimo esercizio di stile. Mescolare stili e generi diversi in uno stesso lavoro ci può stare. Ma quando non si riesce a capire la direzione di una band, tante sono le strade imboccate, vuol dire che il meccanismo non ha funzionato come doveva. Ed è un peccato.
Ma andiamo con ordine. Alla pinkfloydiana Daughters of Cain si lega immediatamente I Am Chemistry, brano che si regge su una base fatta di synth ed effetti elettronici in stile Animal Collective; la voce di Suzzy Roche canta alcuni versi bizzarri (My mama told me not to fool me with oleander/And never handle the deadly quaker buttons again) ma l’effetto complessivo è di spaesamento totale. L’etichetta di “fratelli patinati” degli MGMT salta alle orecchie quando arriva l’ammiccante Silly Me, ballata disco dal sapore pseudo-provocatorio tra effetti elettronici e un cantato alla George Michael.
Decisamente più intrigante è invece Half Asleep, con un’atmosfera che sembra avvicinare la musica celtica, sia dal punto di vista della linea di canto che degli arrangiamenti. Vero mix impenetrabile è Dead Sea Scrolls, conglomerato (a tratti dissonante) di generi tutti molto distanti fra loro: rock, electro, world e chi più ne ha più ne metta. Il rischio di restare spiazzati c’è, di certo però, ma lo sforzo deve essere consistente, non ci si annoia.
Proseguendo l’ascolto ecco Prophecy Gun, dolce ed elegiaca negli arpeggi vocali di Keating, quel tanto che serve per stupire ancora, se mai ce ne fosse bisogno (ce n’è, ce n’è). Computer Canticle 1 è un intermezzo brevissimo di suoni astrusi tra percussioni tribali e sirene ipnotiche: niente di strano, tutto sotto controllo, ci si prepara solo a Divine Simulacrum, brano sperimentale con tastiere misteriose e un cantato più corposo, ma attenzione ai cori eterei, che sono sempre dietro l’angolo. Child Prodigy è un altro giochino sbarazzino di un minuto scarso: un clavicembalo sintetico di bachiana memoria sostenuto da un applauso ironico in sottofondo. Della serie, come mescolare sacro e profano! È l’invito ad ascoltare Gerson’s Whistle, brano in parte beatlesiano in parte sperimentale, pop melodico e world. L’album in cui ha collaborato anche il chitarrista Steve Marion (aka Delicate Steve) e nella cui produzione figura pure Joey Waronker degli Atmos For Peace si avvia alla conclusione. E sarebbe anche ora, verrebbe da dire. Invece si resta spiazzati dalla bella Uma, che disegna armonie dolci e suadenti grazie anche ad onde elettromagnetiche e a una tastiera psichedelica davvero interessante.
Gli ultimi due brani sono Cold Night e Amen & Goodbye: il primo una canzone che più pop non si può tra una batteria in perfetto stile Radiohead e dei passaggi più joyful, ma comunque sempre fruibilissimi; la title-track è invece l’ultimo intermezzo del disco, 36 secondi di impulsi elettronici di cui davvero si fatica a comprendere il senso, se non altro per il contesto futurista e dai sapori a tratti medievali in cui sono inseriti.
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autore: Vincenzo Sori