Il nono album della cantautrice/rocker del Dorset è frutto dei suoi viaggi fatti in Kosovo, Afghanistan e Washington DC con l’amico fotografo e filmmaker Seamus Murphy, esperienza che è stata raccolta anche nel libro “The Hollow of the Hand” con poesie di lei e foto di lui.
Se si guarda in retrospettiva la discografia di PJ Harvey si nota che non ha mia fatto un disco uguale all’altro, ma che in alcune fasi i suoi lavori hanno avuto una certa continuità. Questa si riscontra nei primissimi lavori e in quest’ultimo, dato che ha diversi punti in comune con “Let England shake”. Tuttavia da quest’ultimo prende anche fortemente le distanze.
Il primo elemento di differenziazione è il ritorno più massiccio alle chitarre e all’esclusione dell’auothoarp, anche se permangono certe arie folk ed elegiache, soprattutto nei brani maggiormente improntati alla denuncia sociale e alla condanna della guerra.
Il lavoro è ottimamente riuscito anche grazie al team, ormi affiatato, che si è creato. Il nucleo essenziale è costituito da Flood, Mick Harvey e John Parish.
La ritmica dei brani è spesso scandagliata (“The community of hope”) e si alterna a momenti più corali (“Near the memorials to Vietnam and Lincoln”). Il cantato è spesso molto alto, in maniera più accentuata che in passato e lo si not soprattutto nei brani “River Anacostia” e “Dollar, dollar”.
La coralità si sposa bene anche con chitarre sublimi e intarsi di sax nella dialettica “The wheel” e viene recuperato il blues, anche se poi si disperde e si evolve in qualcos’altro in “The ministry of social affairs”.
In sostanza il disco ha un attitudine molto blues infatti il mood generale dell’album ha un fondo di malinconia e rarissimi momenti di serenità.
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autore: Vittorio Lannutti