Sette anni di silenzio per Robin Proper-Sheppard non son poi tanti per chi nei pomeriggi uggiosi degli ultimi due decenni è andato saltuariamente a fargli visita mettendo su qualche sua canzone.
D’altronde i Sophia non sono quel tipo di band da cui aspettarsi il ‘nuovo disco’, era così già ai tempi dei God Machine (vecchie storie difficili da dimenticare); per certi artisti funziona così: quando arriva qualcosa – inaspettata sorpresa o grazia che sia – arraffi il cartoccio e lo porti a casa con quel che c’è.
Il sesto album dei Sophia però sorprese proprio non ne contiene, attestandosi piuttosto come il continuum di una linea lirica, poetica e musicale all’insegna della semplicità, del less is more, di una povertà strutturale che tende a preservare la formazione come una faccenda intima, privata dei loro ascoltatori.
A dispetto della breve opener strumentale Unknown Harbours, questo disco non è una nuova colonna sonora dei Mogwai ma è l’ultimo disco dei Sophia, quello che vi ricorderà ancora che avremmo potuto piangere tutto il giorno, che qualche volta l’abbiamo sicuramente fatto ma che non c’è niente da fare, non esiste vera beatitudine per chi si arrovella e scappa in un eterno salvifico puerile vagabondaggio sentimentale.
E’ l’ultimo disco dei Sophia questo, per quelli sempre pronti a farsi avvolgere da una calda e ovattata coperta di suono in grado di difenderci … ma da che cosa poi?
Le canzoni hanno un tempo per entrare e accomodarsi dentro di noi, quelle di Robin spesso lo hanno fatto, non può però esserci posto per tutte, noi non siamo più quelli lì. Preferiamo forse i buffi deragliamenti nervosi di St. Tropez/The Hustle o le tastiere melòpop di You Say I’ts Alright che sembrano quelle dei Tame Impala in versione seriosa, foss’anche solo per conoscerne il sapore.
In ogni caso verremo sempre a trovarti ogni tanto Robin, sai, in quei pomeriggi uggiosi…quelli in cui sceglieremo di metter su Baby Hold On, The Drifter o Don’t Ask.
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autore: A.Giulio Magliulo