Il regista Gianfranco Rosi continua a macinare premi in una corsa senza sosta che potrebbe, in un futuro non troppo prossimo, vederlo conquistare l’Oscar. Con Fuocoammare conquista l’Orso d’oro alla Berlinale, un premio dettato – presumibilmente – più dalla caratura del tema trattato che dall’opera presentata.
Vincitore dell’Orso d’oro durante l’ultima edizione del festival di Berlino, “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è un film necessario nella misura in cui ha avuto il merito di posizionare i riflettori dell’attenzione pubblica internazionale su quel fazzoletto di terra che è l’isola di Lampedusa. Avamposto italiano a due passi dall’Africa e a un respiro dalle coste maltesi l’isola, oramai da decenni, è diventata simbolo di accoglienza e umanità.
Dando riprova di una sapienza, quella dei lampedusani, che ha origini lontane e che nasce dalla spuma delle onde, come un’incredibile bellezza che stoicamente insegna al mondo la strada per contrastare la barbarie e accettare seppure con i pochi, pochissimi mezzi a disposizione (a partire dalla superficie stessa dell’isola con i suoi appena 20 km quadrati), tutto ciò che viene dal mare. Ma non basta avere un buon set per conquistare il massimo premio, in un festival che non è mai stato troppo generoso con l’Italia (appena sette statuine in totale). Né consentire con un premio all’opinione pubblica internazionale di sciacquarsi la coscienza di fronte alla terribile disumanità in cui, nelle diverse latitudini, è affrontato l’esodo di intere popolazioni.
Una diaspora dettata dalla necessità della sopravvivenza che viaggia lungo un corridoio fatto di stenti, violenza, paura e morte, come canta uno dei ragazzi ospitati dal centro di accoglienza di Lampedusa in uno struggente spiritual.
Il film scorre davanti agli occhi dello spettatore con un fluire lento e apparentemente innocuo. Sullo schermo si inseguono una girandola di vite: Samuel, la sua famiglia e il suo amico Mathias, lo speaker radiofonico, il sub e sua moglie. Esistenze apparentemente piatte e imperturbabili, lungo una curva del tempo in cui la globalizzazione si rivela una variabile come le altre in un mondo che sembra chetato in una calma apparente e secolare. Anche gli sbarchi sembrano non perturbare quelle vite, troppo assorte nella quotidianeità dell’isola fatta di pesca e piccoli rituali. Unica eccezione, lo spaccato sul medico Pietro Bartolo e la sua straordinaria umanità.
La macchina di Rosi fagocita inesorabile le immagini raccolte, ne ingloba il flusso, senza frapporre alcuna alterazione. Lo sguardo di Rosi è asettico di fronte al fluire degli eventi ed è proprio questo distacco a determinare nello spettatore un feroce straniamento.
Quello forse vissuto dai lampedusani e che è l’estraneità dell’opinione pubblica di fronte al destino dell’isola e di quanti vi approdano. Così anche le vite narrate appaiono come estranee le une alle altre e quello degli sbarchi come un fatto solo marginalmente vissuto dalla popolazione autoctona. E allora quella tragedia, sotto la lente di Rosi, si fa quantomeno stridente, di fronte allo scorrere delle vite semplici fatte di quotidianità dei lampedusani (la fionda, la radio, la pesca, i totani da pulire o le melanzane da preparare).
Realizzato dopo oltre un anno e mezzo di riprese, l’idea iniziale del regista era quella di realizzare un piccolo film su Lampedusa, volontà ben presto arenata a vantaggio della realizzazione del documentario. Una bronchite ha determinato l’incontro con il dottor Bartolo, che fin dai primi sbarchi degli anni ’90 presta soccorso ai migranti. Le sue dichiarazioni e il seppur rapido incedere sul suo lavoro sono momenti elegiaci, di umanità profonda e rara. Ma il vero protagonista del documentario è il piccolo Samuele e la sua infanzia apparentemente arcaica, figlia dell’imperturbabilità dell’isola e allo stesso tempo della sua corsa verso il tempo. Conosciuto grazie a Bartolo, lo stato d’animo del dodicenne ha nel documentario “un significato metaforico”. “Guarda a un fenomeno che ancora non è in grado di decifrare. Anche il suo occhio pigro può essere visto come una metafora della nostra politica contemporanea”.
“Fuocoammare” è per il suo regista un “film politico a prescindere, perché è la testimonianza di una tragedia che sta avvenendo di fronte ai nostri occhi, e che si avvicina alle proporzioni di un Olocausto. Ma mentre l’Olocausto è emerso dopo, in questo caso siamo bombardati dalle immagini di persone che muoiono a poche miglia dalle nostre coste. Ne siamo perfettamente consapevoli, e questo ci rende conniventi”.
autrice: Michela Aprea