Come spesso accade in Italia, l’annuncio del CEO di Apple Tim Cook, sulla prossima apertura di un centro di formazione per sviluppatori di app iOS a Napoli, ha generato un dibattito in cui gli hooligans dell’una e dell’altra parte si sono impegnati a fondo, ma che ha finito col dirottare l’attenzione dalle vere questioni.
La prima delle quali è che l’Italia è ancora un paese fortemente arretrato, sotto il profilo della digitalizzazione. E questo è un problema sia culturale che strutturale. Come si può vedere dalla prima infografica (a destra), il nostro paese è il penultimo in EU per velocità media di connessione internet; anche se di poco, persino la Grecia fa meglio di noi. E – cosa anch’essa degna di nota – è lontano anni luce dal primo, la Romania, che viaggia ad una media di 55.67 Mbps contro gli 8.73 Mbps dell’Italia! Significativo anche il fatto che, a parte il gruppo di coda (oltre all’Italia, la Croazia, la Grecia e Cipro), tutti gli altri paesi hanno una velocità media dai 20 Mbps in su.
Questo ritardo ha, come si diceva, anche ragioni culturali: l’Italia ha un età media della popolazione tra le più elevate del pianeta, secondi solo a Germania e Giappone (prime a pari merito) *. Ne consegue che anche le scelte strategiche sono condizionate dal fatto che sia in alto (classe dirigente e imprenditoriale), sia in basso (consumatori/elettori), prevalgono punti di vista obsoleti, legati ad una visione pre-digitale delle economie.
A ciò si aggiunga che, per un lungo periodo, gli interessi imprenditoriali e quelli politici convergevano su un modello di comunicazione ed editoria di tipo broadcast, il che ha fortemente rallentato lo sviluppo di una efficiente infrastruttura digitale nel paese. Un ritardo accumulatosi per almeno due decenni, e che adesso pesa fortemente sullo sviluppo economico e culturale del paese.
Peraltro, anche se si cominciano a vedere dei tentativi di inversione di rotta, questi sembrano concentrarsi solo su alcuni aspetti della questione, ad es. la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. Che, pur essendo ovviamente importanti, lasciano in ombra la problematica di fondo, ovvero l’obsolescenza infrastrutturale della rete nel nostro paese. Ed è invece evidente come questa sia la premessa indispensabile per innescare un processo di trasformazione profonda, ormai ineluttabile, ma che rischia di vederci ancora un volta fanalino di coda, e sempre più lontani dalle posizioni di testa.
Non ha molto senso discutere di smart cities, con queste premesse. Almeno quanto lo sarebbe stato discutere di esplorazione spaziale prima di avere vettori in grado di superare l’atmosfera terrestre.
Ma poiché, come si diceva, il ritardo accumulato è forte, occorre procedere accellerando per recuperare – almeno in parte – lo svantaggio. E quindi, comprimere i tempi, lavorare sulle infrastrutture di rete progettando al tempo stesso l’architettura del sistema che su essa dovrà poggiare.
La chiave di volta di questo sistema non può che essere – appunto – il mettere a sistema, la connessione produttiva, di quella che è una delle maggiori risorse di cui disponga l’Italia: la conoscenza.
Necessitiamo di un sistema capace di posizionarci in maniera competitiva sul mercato globale, che è esattamente – oggi più che mai – un mercato basato sulla conoscenza, sulle informazioni; valorizzando al massimo le opportunità e minimizzando i gap. Quando pensiamo – tanto per fare un esempio – che il New York Times ha un bacino d’utenza di 60 milioni di lettori (e gli italiani sono solo 59 milioni), si capisce che una prima barriera è quella linguistica. All’opposto, il patrimonio artistico e culturale, così come la creatività, sono elementi apprezzati e ricercati, che costituiscono parte fondamentale del brand Italia.
Gli asset su cui lavorare, quindi, sono: gli open data, il patrimonio culturale, la ricerca avanzata.
Sul terreno degli open data molto si sta facendo dal basso. E ciò è comunque positivo. Ma si rende necessario far si che dalla condivisione dei dati si passi, in maniera significativa, all’utilizzo innovativo degli stessi. Basti pensare a ciò che potrebbe scaturirne nel solo settore dei beni culturali (ad es. “la potenzialità dei dati archeologici aperti è innanzitutto legata alla ricerca, ma consente all’archeologia di ridefinirsi come servizio pubblico” **).
Ma è l’intero corpus del patrimonio culturale italiano, davvero sterminato, che può e deve essere valorizzato attraverso una sua intelligente immissione nel circuito digitale globale. A partire dalla necessità, quindi, del suo censimento.
Così come di grande rilevanza è il perseguire l’innovazione anche sul terreno prettamente scientifico e tecnologico, per far crescere – a partire dalle eccellenze già presenti – una rete capace di riportare il paese all’avanguardia. Perchè non possiamo accontentarci di singoli successi (come ArgoMoon, il nanosatellite scelto dalla NASA), ma dobbiamo far si che si possa contare su un sistema capace di posizionarci positivamente nel contesto internazionale.
E questo richiede che si lavori su tutti e tre gli asset, non solo parallelamente ma intrecciandoli virtuosamente.
Per tornare quindi all’input iniziale, non basta assolutamente il modesto arrivo di un grande marchio, per trasformare una città. Occorre molto di più.
Occorre innanzi tutto un progetto. Un’idea di trasformazione e sviluppo. Occorre partecipazione. Serve offrire opportunità. Necessita un approccio collaborativo. Richiede di valorizzare la competenza piuttosto che l’appartenenza.
L’arrivo di Apple e Cisco a Napoli, che vanno ad aggiungersi al Laboratorio di Esperienza Digitale della Microsoft (presente in città da oltre due anni), anche se di per sé rischia di non avere alcun impatto significativo, può diventare occasione per sperimentare, all’ombra del Vesuvio, un nuovo modello di sviluppo per il nostro paese: la città della conoscenza.
Napoli, oggi, anche grazie ad una serie di congiunture particolari, rappresenta il terreno ideale per questa sperimentazione.
É una città attrattiva, con una splendida collocazione paesaggistica. Vi si trovano centri di eccellenza – ad esempio nel settore dell’aerospazio e delle bio-tecnologie. Ha una popolazione più giovane della media nazionale. Si colloca in un territorio di grande ricchezza artistico-culturale e, su scala più ampia, in una posizione strategica rispetto al bacino mediterraneo. Vanta da sempre una grande creatività, ed attraversa una fase di interessante effervescenza culturale. Possiede un vasto patrimonio immobiliare di pregio artistico, inutilizzato se non abbandonato.
Ha, ovviamente, anche delle significative negatività. Una insufficienza infrastrutturale innanzitutto. Ed una presenza assai invasiva della criminalità.
Il bilancio pende comunque a suo favore, anche se più per ciò che potrebbe darsi che non per ciò che è; si tratterebbe dunque di trasformare le opportunità in risultati.
Cosa vorrebbe dire, sperimentare a Napoli la città della conoscenza?
Significa innanzi tutto non limitarsi ad accogliere le opportunità provenienti dall’esterno – o, al più, a raccordarle tra di loro – ma orientare lo sviluppo, pensando in maniera globale. Tutto si tiene, e deve tenersi; non si puo pensare in maniera settoriale, disorganica. Trasporto, pianificazione urbanistica, formazione; tutto deve essere connesso in un unico progetto.
Significa immaginare una città policentrica. Napoli ha uno straordinario centro storico, ricchissimo di beni artistici e culturali, ma assolutamente non in grado di reggere un elevato impatto veicolare – anche per la sua struttura urbanistica. Bisogna quindi immaginare una serie di poli di sviluppo, all’interno della città metropolitana, efficientemente collegati tra di loro e con i più importanti snodi cittadini.
Significa partire dal territorio – dai suoi abitanti – e quindi avviare processi partecipativi sin dalla fase progettuale, perchè nulla risulti calato dall’alto, e nulla si riveli inopportuno per la cittadinanza. E far si che questa possa esercitare un controllo di trasparenza sull’intera fase di progettazione e realizzazione.
Significa raccordare i centri di produzione di ricerca e di formazione, in una rete capace di interscambio. Collegare scuole università ed imprese d’eccellenza, in un modello collaborativo e non competitivo, favorendo l’osmosi dei saperi.
Significa superare l’attuale fase del turismo di massa mordi-e-fuggi, caotico, insostenibile per i residenti e generatore di un processo di gentrification, puntando invece ad una presenza di qualità e di maggior durata, capace di apportare anche arricchimento culturale. Creando innanzi tutto una rete di residenze, per ospitare artisti, ricercatori, intellettuali – da ogni parte del mondo – e favorendo poi, con opportuni incentivi, l’arrivo presso le università di studenti e ricercatori stranieri.
Significa favorire al massimo la produzione artistica e culturale del territorio, a partire dalla concessione degli spazi pubblici inutilizzati, affinché vi si possano insediare le molteplici realtà che operano nell’area metropolitana.
Significa immaginare – e progettare, e realizzare – un paio di centri di ricerca internazionale d’avanguardia, sul crinale che unisce arte e scienza, focalizzati uno sulle scienze cognitive, laddove l’intelligenza artificiale necessità di dialogare con la sensibilità umana, ed un altro sull’applicazione delle tecnologie nella formazione, la conservazione e la fruizione dei beni culturali. Coinvolgendo in questo quelle grandi imprese tecnologiche che si sono affacciate sulla città.
Significa ragionare in termini di medio-lungo periodo, senza quindi inseguire le scadenze politiche di breve termine.
Significa – in ultima analisi – seminare oggi per raccogliere domani.
La città della conoscenza è un modello di sviluppo possibile per il paese. Sapranno le classi dirigenti accettarne la sfida?
* vedi infografica2
** Open Pompei
autore: Enrico Tomaselli