Premiato al Biografilm di Bologna, come miglior film italiano, Napolislam di Ernesto Pagano si rivela un lavoro di superfice dove ad imperare, più della qualità del prodotto in sè, è la sua “spendibilità mediatica”.
Napoli, la città di san Gennaro, delle mille Madonne e delle santificazioni facili. Luogo in cui, come riportava anche Sandor Marai in uno dei suo capolavori, “Il sangue di san Gennaro”, c’è un patrono ad hoc per ogni evenienza col quale instaurare un rapporto più contrattualistico che fideistico (come anche la celeberrima gag del compianto Massimo Troisi insieme all’immancabile Lello Arena dimostra). Ebbene, Napoli – città dalle radici profondamente cristiane, luogo nel quale la religione si impasta con la superstizione, le credenze e il vivere quotidiano diventando un tutt’uno dalla struttura mobile e malleabile sempre pronta all’occorrenza, – è (addirittura!) teatro di un fenomeno di conversione autoctona all’islam. Quale piatto più ricco nel quale ficcarsi? La città-emblema per eccellenza che sposa una religione, diventata anch’essa suo malgrado un simbolo (di violenza, oppressione, morte secondo la narrazione mediatica occidentale). Una ricetta invitante che data la profondità dei temi da affrontare e l’alone di stereotipia che li ammanta, andava presa con serietà e che invece il regista Ernesto Pagano, nel suo documentario Napolislam si limita a cavalcalcare seguendo l’onda mediatica che gonfia, dopa e stravolge i fenomeno osservati.
Con la sua telecamera, guidato da Marzouk Mejri, – raffinato cantante e percussionista tunisino, diventato all’occasione, una sorta di Virgilio investito della funsione di svelare e raccontare l’Islam più vero e profondo, quello delle Scritture, della parola del Profeta – , il regista si immerge nel cuore di Partenope, seguendo le vite di alcuni convertiti. Ci trova un padre che ha perso (e ritrovato) la fede dopo la morte prematura della figlia, un militante dei disoccupati organizzati che invoca ora la sharia, un rapper innamorato del Corano, due donne convertite per amore e altro ancora.
Peccato che quelle storie trovano in Pagano un tramite superficiale. Certo, il suo intento è soltanto quello di raccontare alcuni vissuti di uomini e donne che abbracciano la fede coranica, lasciando al di là dello schermo ogni pulsione di comprensione e analisi del fenomeno. Un regista questo fa: racconta, qualcuno direbbe. Nel caso di Napolislam, è stato scomodato addirittura Cesare Zavattini. Mai paragone fu meno azzardato. Da un lato abbiamo una delle espressioni più alte e autorevoli del giornalismo, del cinema e della letteratura italiani. Dall’altro un giornalista, un arabista (si è formato in studi islamici all’Università L’Orientale di Napoli) che però si tiene ben lungi dall’affrontare un fenomeno tanto spinoso se non con estrema superficialità. “Un approccio da cronista, teso però a distruggere gli stereotipi”, ha guidato la telecamera di Pagano lungo il racconto delle sue dieci storie che assomigli, invece, ad un prontuario di visioni preordinate, pronte ad alimentare gli istinti più bassi e a mostrare una visione oleografica, peggiorata dall’allure partenopea, dell’islam alle falde del Vesuvio. Se la presenza dell’iman della moschea di piazza Mercato, Agostino Yasim Gentile, dello stesso Mejri e del rapper Danilo Alì Maraffino sono riusciti a dare sostanza al ritratto della loro fede, lo scenario dipinto dalle donne è un opinabile bolo fatto di macchiettistica banalità.
Il regista ha volutamente attinto le sue storie dai ceti più popolari, con un approccio che appare come stucchevole e autocompiaciuto nella sua parvenza di superiorità, svincolandosi dalla possibilità di un confronto strutturato. “Avevo, originariamente, pensato di raccontare anche gli strati sociali più alti ma i casi di conversione sono rari: so che alcuni studiosi dell’Università si sono convertiti ma, poi, mi sono lasciato affascinare da un Islam avulso da un approccio libresco” ha raccontato in un’intervista per il portale Cinecriticaweb.
Progettato nel 2007, il documentario è stato girato tra il 2014 e il 2015. L’idea era quella di raccontare l’Islam a Napoli, seguendo alcuni napoletani durante il Ramadam, il mese in cui fu rivelato il Corano agli uomini e che viene accolto dai fedeli osservando il digiuno fino al tramonto. Il caso ha voluto che, all’epoca delle riprese, quel periodo si concludesse proprio nel giorno consacrato dai cristiani alla Madonna del Carmine, rivelando la molteplice anima di piazza Mercato e il suo essere diventato crocevia di culture e laboratorio di integrazione e convivenza tra le professioni.
Due attentati, entrambi a Parigi (alla redazione di Charlie Ebdo e al Bataclan), ne hanno fatto in qualche modo la fortuna dando all’opera una risonanza mediatica tanto importante da impedirne la proiezione nei giorni immediatamente successivi all’ultimo terribile evento parigino.
La pellicola, prodotta da Ladoc in collaborazione con Isola Film e distribuita da “I Wonder Pictures”, è stata premiata al Biografilm di Bologna, festival internazionale del documentario, come miglior film italiano.
Da segnalare il felice espediente utilizzato per il titolo in apertura e in chiusura del film e la colonna sonora, curata da Mejri e Maraffino.
Autrice: Michela Aprea