Il Teatro degli Orrori è tornato. In molti aspettavano con trepidazione un nuovo lavoro dei veneti dato che era troppo tempo che non calcavano le scene, e poi sono tornati alle sonorità degli esordi che con l’ottimo “Il mondo nuovo” erano state messe in secondo piano; quindi è un gradito ritorno.
In questo quarto disco il quintetto è riuscito a trovare la quadra tra il noise tagliente dell’asse chitarre-basso del primo lavoro e quello delle tastiere del penultimo lavoro, ma il valore aggiunto di quest’ultimo è che le tastiere non sono ovattate, come lo erano in maniera eccessiva anche nel live. Dunque dal punto di vista sonoro Il Teatro degli Orrori ritorna ad aggredire rendendo i brani-testi più efficaci e più graffianti.
Il motivo per cui si aspettava questo lavoro è perché Capovilla & Co sono tra i pochissimi, che oggi nel mondo del rock italiano, fanno un percorso artistico-politico unico, privo di retorica e di slogan. Quando arte e politica si sposano così bene, come sono in grado di fare Mirai, Valente, Favero, Capovilla, Batelli e Laca, allora ecco che l’arte svolge nel senso più alta la funzione pedagogica.
Pierpaolo Capovilla ci sbatte in faccia la dura realtà che viviamo, senza mediazioni, né ammorbidimenti; gridando a squarcia gola che questo Paese non cambia perché non vuole cambiare e che si sa benissimo che Finmeccanica fa i soldi con la produzione delle armi (“Lavorare stanca”), oppure mettendosi nei panni dei giovani disperati che pippano di brutto, precari nella vita, nella lavoro, nelle relazioni, asserviti al potere avvoltoio e talmente privi di identità da voler emulare i personaggi famosi (“Disinteresati e indifferenti”). In fondo c’è un legame tra queste tematiche e quelle affrontate nei lavori precedenti, quando Capovilla in “E’ colpa mia” riconosceva la responsabilità delle sua generazione per lo sfacelo dei più giovani.
Se in “A sangue freddo” Capovilla omaggiava Majakovskij in questo disco si ispira ad Antonin Artuad nella rabbiosa “Cazzotti e suppliche” il cui obiettivo è il consumismo portato all’eccesso dei nostri tempi. Ce n’è anche per il PD di Renzi ne “Il lungo sonno (lettera aperta al Partito Democratico)”, nella quale condanna la virata a destra di un partito che ha perso ogni minima matrice di sinistra.
Un nuovo tema affrontato è quello del disagio mentale nell’accoppiata “Benzodiazepina” – “Slint”: nel primo brano viene denunciata la dipendenza dagli psicofarmaci, mentre nel secondo, oltre ad omaggiare l’omonimo gruppo, si entra nelle viscere della sofferenza psichica. Nonostante tutto, in fondo al tunnel c’è un barlume di speranza e l’ultimo brano, “Una giornata al sole”, fa emerge l’importanza di apprezzare la semplicità delle cose e della vita, un brano che gioca su un electro-rock atipicamente solare.
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autore: Vittorio Lannutti