Per chi è ormai un aficionado dell’appuntamento cilentano con il Meeting, sono due le cose chiare, impossibili da mettere in discussione. La prima è che, prima o poi tra la folla si scorgerà qualcuno di strano. La seconda è che: al Meeting, almeno un giorno e per qualche ora, dovrà piovere. A niente valgono le macumbe o, più realisticamente, i giorni di delay (come per quest’edizione) sulla data consueta del Festival. Se per questa diciannovesima edizione la prima profezia si è avverata solo dopo 24 ore, la pioggia invece è arrivata subito, sin dal giorno zero, quello del Jam Camp, il contest di band emergenti del Meeting de Mare 2015. Dopodiché, ogni giorno, incredibilmente alla stessa ora, secchiate d’acqua bollente dal cielo hanno accolto pubblico e musicisti (e fotoreporter, purtroppo), in uno scirocco da Pirati dei Caraibi o, per i più vintage, da Monkey Island.
Ma nonostante ciò, il fascino di Marina di Camerota, spazzata dal vento caldo e dalla sabbia, resta invariato. Ad impreziosirla, un nuovo palco con un nuovo set luci ed, ovviamente, decine di band emergenti (con due o tre headliners) in tre giorni di musica dal vivo.
Dopo il giorno “zero” del Jam Camp, piovoso come gli altri, si inizia alle 18:40, in ritardo causa pioggia. Aprono questa diciannovesima edizione, i Neck Warmers, quartetto grungettone molto Bush. Bella grinta, la loro, ma la scarsa esperienza da palco si fa sentire dopo il primo brano. Si continua con i Kilastage, alternative rock tosto e roccioso. Cupi quanto basta, il power trio, batteria, basso e chitarra, ci da dentro, proponendo un sound spigoloso ma ben curato. Tocca agli Antunzmask che mantengono il buon livello dello scorso anno, con sonore mazzate su cassa e rullante. Peccano un po’ in colpi di scena e variazioni, risultando però, alla lunga, un po’ monotoni. Ritorna sul palco, dopo meno di 24 ore, Erica Romeo, tra i partecipanti al Jam Camp. Il suo sound è dolce e deciso, in continua dialettica tra le due chitarre, accompagnate da una linea percussiva soft e pulita. Tra le migliori del Jam Camp, senza ombra di dubbio. Alternative rock cantato in italiano, quello degli Hank. Molto ben arrangiato, i ragazzi alzano il livello medio dello show e sembrano piacere al pubblico. Si divertono sul palco, e si vede, riuscendo a trasmettere una bella energia. Per contrappasso, come punizione divina, i successivi 10 minuti di noia mortale vengono offerti dagli Hyena Ridens, sul palco con le ormai viste e straviste tute bianche da laboratorio, ormai quasi un must, se si vuole apparire autoironici-ma-non-troppo. Beh, non funziona. Tempi funk, voce rap ma nonostante l’accoppiata, i Madafunk non dimostrano lo spessore adatto per sfondare il palco, non uscendo da alcun solco e non riportando alta l’attenzione. Ci riescono i Blu di metilene, con le loro distorsioni iper stracciate e gli ipnotici feedback. un buon sound denso che mantiene alto il livello, per tutta la loro esibizione. Abbastanza piatti i Fiori di Hiroshima: un po’ moscetti sin dall’inizio, forse per i volumi troppo bassi. Ma a parte qualche colpo di coda, dal loro sound ‘80/’90 non esce fuori niente di veramente interessante. Ma il momento più arduo da superare è quello affidato agli Scratch. Una voce decisamente da scartare, rende un’esibizione che dura più del dovuto, ancora più lunga. Tra i peggiori del primo giorno (e probabilmente di tutta questa edizione), sembrano confusi e spaesati sul palco. Neanche i Disphere, per quanto piatti come il mare a poche centinaia di metri da loro, possono competere. Un set incredibilmente grigio, se non per la linea di percussioni.
Di tutt’altra pasta gli Happy M.I.L.F. (anche loro direttamente dal Jam Camp): ottima tenuta di palco, impostazione da super-pro, pronti per aprire un headliner. I suoni sono molto ben incastrati tra loro e risultano piacevoli per tutta l’esibizione. Per la prima volta, tra il pubblico, c’è chi chiede qualche altro brano. Anche i Syndrome risultano essere una bella sorpresa. Funk-rock fuori le righe: tre pezzi travolgenti e molto, molto divertenti. I ragazzi tengono molto bene il palco, ricordando, a tratti, la cricca di Tom Morello. Da Firenze, arrivano i Cento, band dal nome evocativo ma dal flow non proprio impeccabile. Bravini, ma stancano dopo poco, nonostante sembrino sbizzarrirsi sul palco. A parte gli appariscenti vestiti di scena, Il Sogno di Ilse è da dimenticare nel minor tempo possibile. La cantante resta impigliata con la caviglia nel lungo vestito Bjork-style, ma, a parte questo, solo noia già dopo la metà del primo (lunghissimo) brano. I due minuti d’odio, altra band interessante solo per il nome, presentano un pop-rock come tanti altri. L’intro alla Ramones sembrava lasciar intendere qualcosa di meglio, ma resta, appunto, solo un buon presagio. I Dada Circus sono gli ultimi (anche loro dal Jam Camp), ad esibirsi prima dei Verdena. Divertenti e allegri, suonano bene e sembrano abbastanza rodati. Il pubblico si lascia coinvolgere e, finalmente, si vede qualcuno che balla. Parlano molto con la platea e non restano fermi un attimo. Felici, abbandonano il palco e lasciano posto ai primi headliner del Meeting del Mare. Ormai ombra di ciò che erano dieci anni fa, i Verdena non sembrano avere più quella patina malinconica che li contraddistingueva e che, in epoca esclusivamente teenageriale, poteva essere la cifra stilistica che poteva allontanare gli ascoltatori dal peggio musicale. Per quanto siano riusciti ad attirare qualche migliaio di persone, facendo riempire la zona concerti, fanno porre una domanda, per altro facilmente replicabile il secondo giorno: è questa la scena non-mainstream italiana? Sono queste le linee guida alle quali chi, alle prime armi con una Fender usata tra le braccia, dovrebbe aspirare? Un quesito che ci si porta a casa, come quando, alle prime luci dell’alba, Spotify pesca casualmente dalle tue playlist “Impronte” dei Diaframma e ti pone di fronte all’evidente. I tempi sono cambiati. E forse per la prima volta, questa, non è una fortuna.
Il secondo giorno si inizia alle 17:20 circa, dopo una mattina ricca di appuntamenti come quello moderato da Nadia Merlo Fiorillo, sulla stampa musicale online e sulle possibilità di promozione sul web. Un caldo umido da foresta sub-tropicale accoglie gli Steel Demon. Giovanissimi, più giovani di quanto si possa immaginare. Il batterista ha bisogno di aiuto per salire e scendere dalla pedana ma, appena accendono i Marshall, tutto questo si perde. Presentano un metal melodico con tutti i limiti dovuti alla (necessaria) inesperienza, ma non si lasciano scoraggiare: ci danno dentro come se fosse l’ultimo giorno dell’umanità. Un atteggiamento, che da solo, fa dimenticare qualsiasi altra sbavatura di tipo tecnico. Col sorriso sulle labbra si passa ai New Age, anch’essi giovanissimi, ma di tutt’altra pasta. Tecnicamente impreparati, il loro sound è melenso e lento all’inverosimile. Inversione di rotta con i Man in the box: il loro grunge rock alla Foo Fighters è ciò che serve per potersi risvegliare dall’intorpidimento del secondo pomeriggio. Qualche problema alle spie non li distoglie dall’offrire tre brani veloci e taglienti come non si sentivano da un bel po’. Tocca poi a Giuseppe Pagliarulo, acompagnato da una band super-minimal. Offre un cantautorato rock spinto che all’inizio sembra passare inosservato, ma già dal secondo brano inizia ad essere soddisfacente. Vira addirittura sullo stoner nel terzo pezzo, lasciando il palco tra qualche applauso dei pochi presenti. Tanti problemi tecnici per i Bluediklein, ma l’attesa delude le aspettative. Annoiano presto nonostante i tentativi di dare dinamismo all’esibizione. Il risultato è un set che sembra composto da un unico brano, pressoché identico a tanti altri. Basterebbe “Walter White” de I treni non portano qui per farli vincere in ogni contest sul pianeta Terra. Scherzi a parte, nonostante la meravigliosa t-shirt del cantante della band, il gruppo si dimostra più che compatto sul palco, offrendo una ventina di minuti di divertimento puro. Di nuovo sul palco del Meeting, i Morris Goldmine mantengono alto il livello. Un bel pop-rock veloce e vario, dimostra la loro esperienza acquisita negli anni. C’è qualcosa di Zeppeliniano nel loro terzo, ed ultimo brano, che non fa nient’altro che migliorare ancora di più il loro show.
I Freschi, lazzi e spilli continuano il trend positivo del secondo giorno: una bella attitudine nel rapporto con il pubblico, divertono e sembrano divertirsi, dimostrando di essere decisamente migliorati rispetto alla loro passata esibizione sul palco del Meeting. Tocca ai Dissociati Crew (powered by Jam Camp). Rap torinese, molto più bravi nel (presunto) freestyle iniziale che nella performance. Piuttosto nella media, bisogna però riconoscergli un qualcosa in più rispetto al mare magnum di rapper esordienti. Ottimi esecutori, ma nient’altro, il Palco numero cinque: a parte le randellate di batteria, sembrano essere una band di turnisti. Probabilmente eccellenti come cover band, la loro proposta lascia però a bocca asciutta chi si aspettava un po’ più di intraprendenza. Eugenio in via di gioia porta invece sul palco un folk-rock molto ben costruito:
merita sicuramente un ascolto più attento. Gli manca qualcosa di non ben definito ma riesce comunque a catturare l’attenzione del (purtroppo) sparuto pubblico. Non male davvero. Ritorna sullo stage Leo In che, in una scorsa edizione, ebbe l’onere di essere il primo ed esibirsi, in un assolato pomeriggio. Giovanissimo, recupera in talento ciò che gli manca in età. Molto cresciuto rispetto alle scorse edizioni, tornerà sul palco dopo qualche ora con i Cilento Roots. Nonostante la bell’idea di dedicare il loro terzo brano all’incommensurabile genio di Nikola Tesla i Fantorama non sembrano esprimere veramente le loro potenzialità. Venti minuti di synth arrabattati su rullanti e crash, senza aggiungere una sola virgola al mondo dell’arte, e si passa ai Musica a Manovella, chiarissimo tributo al maestro Capossela. Patchanka divertente, i sei elementi (accompagnati da un settimo vestito da Cpt. America anni ‘60), offrono un bello show ed un simpatico intrattenimento prima del momento peggiore delle 48 ore. “Siamo tanti, siamo belli ma chi canta è Riky Anelli”. Con un’introduzione del genere, il tempo sembra cristallizzarsi ed esplodere: ai livelli grotteschi di un giovane Eros Ramazzotti, con tanto di voce nasale e sguardo bovino da chi la sa lunga, sul palco compare il rigurgito di un ennesimo Sanremo Giovani o di un talent show random (scegliete quello che volete: non cambia assolutamente nulla). Superclassica voce e chitarra, estensione della musica leggera italiana della peggior specie, accompagnato da ottimi musicisti, Riky dimostra quanto subiamo ancora le conseguenze di quei maledetti anni ‘90. Super inversione di rotta con i Molotov d’Iripinia, con un folk-rock ben strutturato. Parlano moltissimo con il pubblico che dà loro riscontro. Sanno davvero il fatto loro e costruiscono uno show molto interessante. Viene da chiedersi come siano da disco, ma, dal vivo, la loro musica parla per loro. Ritorna sul palco Leo In, questa volta con i Cilento Roots, per l’ennesima mezzora di reggae/rap divertente fino ad un certo punto, per poi lasciare spazio ai Suntiago, ultimi emergenti (anche loro dallo Jam Camp) con molto da dire ma con poca capacità di organizzare un qualsiasi discorso, prima dei Kutso e de Lo Stato Sociale.
Qui ritorna a galla la stessa domanda di prima. Sul palco i Kutso. Fossero nati 30 anni fa in California (o se l’Italia non fosse la periferia musicale del mondo civilizzato), i Kutso festeggerebbero ogni sera in piscina con bottiglioni di Cristal, bevendone metà e versandone il resto a Quentin Tarantino. Il loro atteggiamento sul palco è quello che ogni band dovrebbe ricercare: mettercela tutta, sempre. Raccontare, farsi raccontare, urlare, liberarsi. E loro lo fanno, indiscriminatamente, tra stronzate e insegnamenti zen, perché l’intera esistenza è un galleggiare tra lo zen e la stronzata. Fanno divertire il pubblico perché loro stessi sembrano essere il pubblico. E quello che ne esce, da questa alchimia, è qualcosa di bello e triste nello stesso momento. Bello per forma e sostanza, triste perché, il 90% dei presenti, non è lì per loro. Tra maschere di Mike Bongiorno, pace all’anima sua, e mosse da samurai incalliti, dopo una stupefacente esibizione, lasciano il posto a Lo Stato Sociale. Una delle storie più strane degli ultimi tempi: come sia possibile che una band identica a mille altre possa assurgere forzatamente ad idoli della musica indipendente italiana, “gran fenomeno” di questi tempi bui, precursori di loro stessi, è una domanda a cui è facile (e demotivante) rispondere. Tra un “Bella Ciao” da e per il pubblico, uno stage diving, lo sguardo ammiccante verso le prime file ed un paio di totem di luci strobo, sgocciola via quest’ultima edizione del Meeting. Mancante di un vero headliner (lo scorso anno, in tre giorni, Gogol Bordello, Franco Battiato e Luci della Centrale Elettrica), ma, forse proprio per questo, ancor più ricco di passione e speranza. Passione e speranza che si ritrovano facilmente negli sguardi di tutti coloro che ne hanno preso parte, dai direttori artistici ai volontari, poco più che maggiorenni, affaccendati ad ogni ora del giorno e della notte per tenere in vita, a tutti i costi, l’ultimo festival della Campania. E se non per i musicisti, l’acqua ed il vento, lo si subisce, a cuor leggero e con il sorriso sulle labbra, solo per loro.
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autore: Alfredo Capuano