La musica, per molti, è come una religione e come tutte le religioni ha i suoi luoghi di culto collettivo, i palchi dei concerti. Tendenza recente è sovrapprorre queste due sovrastrutture fino a farle coincidere, come nel caso della (doppia) data romana (22 e 25 maggio, entrambe sold out) del tour di Micah P. Hinson che ha avuto come venue non poco suggestiva la chiesa evangelica metodista di Roma dove, per una sera (anzi per tutte le Church Sessions organizzate da Unplugged in Monti), il padrone di casa non è stato il pastore valdese Eric Noffke bensì un altrettanto comunicativo cantautore d’oltreoceano.
L’atmosfera ecclesiale è tanto insolita quanto affascinante nonostante la chiesa si presenti sobria, senza colonne a separare navate e senza soffitti affrescati. La sacralità del luogo contagia organizzatori e pubblico al punto da permettere un livello di puntualità raramente raggiunto nel mondo del rock. E così, Ned Roberts, che ha il compito di aprire la serata, comincia la sua performance spaccando il minuto. Inglese di nascita, con chitarra acustica e armonica al seguito, propone un reportorio folk di chiara matrice nord europea ma abbastanza sulle righe, senza grosse vette stilistiche ma senza mai inciampare durante l’esecuzione di una decina di tracce tratte dal suo omonimo debut album (registrato a Los Angeles, nda).
Cambio palco di pochi minuti (in effetti non c’era molto da cambiare!) ed ecco salire sul palco/altare un malconcio Hinson con un maxisucco di frutta all’arancia, tracannato per almeno dieci secondi prima di salutare il pubblico.
Per la verità non sembra molto in forma, parla lentamente, sbiascicando parole, confessando di non sapere ancora che scaletta proporre anche se poi conferma, previa rapido consulto dell’agenda ove ha lasciato appuntata l’intera scaletta, la riproposizione per intero del suo debutto discografico “The Gospel of Progress” (con l’aggiunta di qualche brano da “The Baby and the Satellite” e ”Opera Circuit”) di cui questo tour celebra il decennale.
L’inizio è da brividi perché “Close Your Eyes” esalta le qualità della sua voce roca e grave. “Beneath The Rose” è suonata con la sua vecchia chitarra acustica (equipaggiata con gli storici adesivi dedicati a Woody Guthrie e a… Batman) ed eseguita insieme alla moglie Ashley Bryn Gregory (in evidente dolce attesa). “Don’t You”, “The Possibilities”, brani che si susseguono rapidi tra un’accordata alla Airline bianca e un’altra (apostrofata, per questo, come “fucking canadian stuff”). Volano i quasi novanta minuti della setlist dominata dal più classico folk: “Caught In Between”, “The Nothing” e gli altri brani di “The Gospel of Progress”. Frequenti sono le incursioni elettriche, a volte strafottenti e molto rumorose, altre solo leggermente distorte a riprendere gli accordi suonati fin lì. Il tutto sempre puntellato dagli acuti striduli e cantilenanti tipici del cantato del nostro.
Alla fine ringrazia molto sinceramente, quasi emozionato, perché, dice, il merito di averlo fatto arrivare lì, è anche nostro. Lascia il palco raccattando bastone, taccuino e tracolla salvo poi riapparire pochissimi minuti dopo per un altro paio di brani per il bis e un’ultima sorpresa, seduto al pianoforte che si trovava giù dal palco verso l’uscita. Evidentemente non era programmata visto che, più di una volta, inciampa sullo stesso accordo, meritandosi addirittura un applauso di incoraggiamento.
Micah P. Hinson è sicuramente un personaggio eccentrico: sul palco si presenta in salopette marrone da ferrotranviere oversize, coppola morbida stile giovane Noodles, bastone (eredità del brutto incidente stradale del 2011), scarpe da ginnastica, espansione all’orecchio e occhiali da nerd. Da uno che sembra il minimo comune multiplo tra Super Mario, topo Gigio e Shane McGowan, non ti aspetteresti quella voce e quella poetica. Canta la determinazione, l’ostinazione, la voglia di superare gli ostacoli (il carcere, l’incidente, i dottori che gli dicevano che non avrebbe avuto figli). Per due ore, ti trasporta in una realtà parallela dove pensi di potercela fare anche tu.
Poi, però, le luci si accendono…
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autore: Luigi Oliviero
foto: Denise Esposito