Il primo album del 2013, Rambutan, era un viaggio di esplorazione musicale, con l’elettronica che si scontrava con atmosfere dell’est e melodie tradizionali.
Con Heyoon, i Landshapes, prima chiamati Lulu And The Lampshades, e composti da Dan Blackett (batteria e voce), Luisa Gerstein (ukelele, e voce), Heloise Tunstall-Behrens (basso e cori), Jemma Freeman (chitarra e cori), rilanciano una volta di più il gioco delle esplorazioni. I Landshapes giocano sui confini delle atmosfere alternative, mescolando le culture e le ispirazioni. Una rivista musicale li ha così definiti: “assemblano immagini di panorami notturni alla Tim Burton dove le strade sembrano manierate da Tom Waits”: una definizione forse eclatante e un po’ manieristica, ma se ascoltate Stay, Fire, Moongee, i primi tre pezzi, capirete almeno il perché di questo azzardo.
C’è poesia e mondo notturno nelle loro canzoni, sicuramente tanto dark e tanto mistero esotico, ma non ostentato, anzi contrastato dalla voce luminosa e solare di Luisa, mentre i testi sono ispirati da racconti del 17esimo secolo tanto come storie di migranti, dalla morte tragica dell’artista danese Bas Jan Ader quanto da storie di notti trascorse nei drag bar.
“Qualcosa intorno a tutta quell’aria fresca, il mare, i boschi e il fuoco si manifestava in modo molto più oscuro e molto più minaccioso di quanto fin qui ne avessimo scritto – racconta Luisa – questo avvertimmo quando cominciammo l’album”.
Moongee, in particolare, il primo singolo del disco, che è ispirato al racconto del Vescovo Francis Godwin su un viaggio interplanetario, descrive bene tutto questo, e anche il modo proprio dei Landshapes di mescolare umori, rumori, conflitti di suono e tutto ciò che può essere esplorato e messo in musica: il frutto di quindici giorni spesi in un cottage nei boschi della Cornovaglia (e dove sennò) nel settembre scorso.
Tutto l’album è un viaggio musicale esplorativo: non si pensi tuttavia che i Landshapes rinuncino alla melodia per i loro esperimenti. Al contrario, grazie anche alla voce tremendamente evocativa e melodica di Luisa, tutti gli accostamenti e la psichedelia di questo disco diventano melodia a tratti sensuale, come in Francois, a tratti energica e rock come in Ader, a tratti solare come in Desert, a tratti struggente e quasi blues come in Red Kite. Ciò che colpisce in questo disco è la capacità di inserire in 11 pezzi tutti i generi musicali, tutte le sfumature melodiche, e contemporaneamente restare assolutamente inquadrati in un’impronta di stile che è unica e si avverte dall’inizio, ed è quella del folk-rock delle brughiere britanniche, incantato e quasi infestato di folletti di ogni tipo.
Un folk-rock che però si arricchisce di tantissima psichedelia, orchestrata dal gigantesco lavoro di post-produzione del disco, fino a trasformarsi in una musica ricca, di strumenti, di atmosfere, di echi, di stili, di infinite ispirazioni e citazioni, di contaminazioni tali da poter essere definito un album post-rock (Red Electric Love Fern ne è un esempio).
Difficilissimo da catturare al primo ascolto, è un album su cui l’orecchio deve lavorare, tantissimo, per destrutturare ad uno ad uno tutti i trucchi del suono, fino a coglierne l’essenza magica, che non può che conquistare e soggiogare.
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autore: Francesco Postiglione