Tra arte e società, esiste ovviamente un legame forte, una connessione profonda.
Si tende a pensare che l’arte sia all’avanguardia, rispetto alla società, ne sia in qualche misura anticipatrice; è quello che pensano anche molti artisti. Ma in realtà non è proprio così.
Non solo c’è spesso un arte di regime, che senza venir meno al suo essere arte è pur tuttavia meramente celebrativa del presente (di quel presente, storico e politico…).
C’è stata e c’è un arte che si lega piuttosto al passato, alla tradizione – culturale, artistica, persino formale; e che si è spesso contrapposta all’arte che, invece, si proiettava verso il futuro, anticipandolo e, al tempo stesso, contribuendo a determinarlo.
É quindi più corretto pensare l’arte come espressione della società in cui nasce e si produce. E che può essere, per ciò stesso, rivoluzionaria o conservatrice, innovatrice o tradizionale.
Se però l’arte si genera nel ventre della società, essa a sua volta restituisce alla società qualcosa, che può – appunto – contribuire a rafforzarne l’identità culturale, l’ideologia, così come a modificarla ed a sovvertirla.
Questo ruolo dell’arte, tra le arti moderne è incarnato soprattutto dal cinema.
Indipendentemente che sia critico o meno verso la sua società-madre, il cinema trasmette ad essa un potentissimo flusso emotivo e cognitivo, che ne influenza profondamente la percezione di sé. Si obietterà che molto più potente del cinema, su questo terreno, è la televisione. Il che è – anche, ma parzialmente – vero.
Ma la televisione non è arte.
Nemmeno tutto il cinema lo è; ma la televisione non è mai arte. Il che forse meriterebbe qualche riflessione.
Comunque sia, e per una serie di ragioni in fondo abbastanza chiare, la narrazione cinematografica rappresenta sempre, in modo più o meno evidente, uno straordinario strumento di formazione dell’identità collettiva.
Non per caso, ciò risulta maggiormente laddove l’industria cinematografica si esprime alla sua massima potenza. In questo senso, infatti, Hollywood è stato ed è la più grande macchina di costruzione identitaria che ci sia. Del resto, nella patria del melting-pot, ciò era assolutamente necessario.
Naturalmente, è chiaro che condizione indispensabile perché questa macchina eserciti efficacemente la sua funzione, è che sia trasparente. Che la funzione identitaria, insomma, non sia smaccatamente evidente, che non sia didattica.
Per questa ragione, tutto un filone del cinema americano – da Berretti verdi a certa produzione di John Milius – indipendentemente dal suo valore artistico, non è qui considerato. Pur avendo presente che, a sua volta, esso esercita comunque la stessa funzione, in forma radicale e rafforzativa, e soprattutto su un pubblico già fertilizzato…
A ben vedere, il cinema americano, che parlava e parla a genti di diversa radice culturale – e di diversa provenienza geografica – ha contribuito più di ogni altra cosa alla costruzione di un’idea unitaria della nazione.
E lo ha fatto innanzitutto attraverso l’edificazione di un epopea: il western.
Quello che è stato, né più né meno, un brutale processo di colonizzazione interna, che a partire dalla costa atlantica (quella degli insediamenti coloniali europei) si lanciò alla conquista dell’immenso ovest del paese, è stato trasformato dal cinema in uno dei miti fondativi degli Stati Uniti.
Di là dalle diverse chiavi di lettura, mutevoli nel tempo – basti pensare all’evoluzione che la figura degli indiani d’America ha avuto nelle pellicole hollywoodiane – la narrazione cinematografica di quella fase storica è una colossale operazione di imbellettamento.
Gli elementi cardine dalla conquista dell’ovest, infatti, furono il genocidio dei popoli aborigeni, la guerra d’aggressione contro il Messico, e più in generale un’ondata di violenza (fisica e morale), che segneranno profondamente l’identità culturale dei nascenti stati dell’Unione. Basti dire che lì affondano le radici dell’idea americana che ogni uomo abbia diritto a possedere un arma.
Di tutto ciò, il cinema americano ha fatto un’epica nazionale.
Un’altro grande filone epico hollywoodiano è quello dei gangster movies. Che in realtà non è che la contestualizzazione in ambito moderno e contemporaneo dell’epopea western. Con un di più evolutivo. Mentre nel western classico, infatti, i buoni sono quasi sempre figure individuali (anche lo sceriffo, simbolo dell’autorità, è chiaramente un uomo che vale per sé più che per la funzione pubblica), nei film di gangster la presenza dell’autorità pubblica, statuale o federale, è più marcata. Del resto, il passaggio dalla banda di banditi a cavallo alle organizzazioni criminali, giustifica l’emergere di un’entità organizzata e strutturata in grado di fronteggiarli.
In ogni caso, anche nel gangster movie, si evidenzia lo schema fondamentale dello story-telling americano, e di quello cinematografico in particolare: la lotta del bene contro il male.
Per quanto la figura del gangster sia sempre interpretata da una star, spesso più importante dell’antagonista con la stella – dal Edward G. Robinson di Piccolo Cesare al Johnny Depp di Dillinger – alla fine è sempre la legge a prevalere.
La narrazione cinematografica americana è strettamente improntata a questo schema elementare: la contrapposizione quasi manichea tra bene e male (in passato, anche con derive lombrosiane…), l’esaltazione dell’individuo.
Per quanto articolata possa essere la sceneggiatura, la sua essenza, il plot, si riduce sempre a questo semplice dualismo. Il bianco e il nero (fino a non molti anni fa, in senso letterale…), senza tante sfumature né complicazioni problematiche.
Il che, ovviamente, è una delle ragioni del successo del cinema americano pressochè in ogni paese del mondo.
L’industria hollywoodiana, insomma, recupera elementi spuri dalla società americana, li rielabora con grande abilità, e quindi li proietta a sua volta sulla società, inducendo in questa una percezione di sé straordinariamente unica. E la potenza di questa forma d’arte, ovviamente, sta proprio nel fatto che tutto ciò non avviene in base a chissà quale schema preordinato, ma si genera spontaneamente in seno alla società statunitense.
Si può dire che l’America abbia imparato al cinema, più che sui banchi di scuola, a considerarsi la rappresentazione del bene a livello mondiale.
Se proviamo ad applicare questa chiave di lettura, questo schema interpretativo, anche al cinema italiano, ne viene fuori un quadro assolutamente diverso.
Se si fa eccezione per la stagione del neorealismo, e per quella della cosiddetta commedia all’italiana (che a mio avviso ne è figlia legittima e diretta), l’industria cinematografica italiana non ha mai svolto una funzione sociale in modo altrettanto corale.
Se dall’immediato dopoguerra al boom degli anni ’60 – in chiave per lo più drammatica prima, con ironia spesso amara poi – il cinema italiano ha prodotto una straordinaria operazione verità, facendo sì che gli italiani si guardassero in faccia per quel che veramente erano (nel bene e nel male), dagli anni ’70 in avanti questa potenza comunicativa non si è più manifestata – pur in presenza di registi di grandissima levatura.
É significativo, ad esempio, che di una stagione di grande trasformazione sociale e politica, come quella che dalla fine degli anni ’60 arriva all’inizio degli ’80, a parte alcune pellicole di grande forza – Rosi, Bellocchio… – rimanga la grande produzione del genere Milano spara – il cui messaggio, ovvero il dilagare della delinquenza senza argini da parte dello Stato, permane ancora oggi nel senso comune, persino ad onta di ogni evidenza statistica e fattuale.
Non a caso, quella tipologia di film, in qualche modo, anche assai rozzo, riproduceva lo schema elementare del cinema americano, buoni contro cattivi, senza alcuna problematicità o profondità analitica. Quasi un cinema a due dimensioni, un cartoon insomma…
Al contrario, la caratteristica del cinema europeo è proprio la complessità, la profondità dei personaggi e delle storie, l’infinita scala di grigi tra il bianco ed il nero.
Ma, appunto, proprio quando la società italiana uscita dalla guerra entra in crisi, la coralità del cinema italiano scompare.
Abbiamo straordinari film di denuncia sociale e politica, ma nessuna epica, nessuna epopea.
Pur a fronte della necessità soggettiva del cinema, di raccontare storie incarnate in personaggi precisi, nel cinema italiano degli ultimi 40 anni sembra scomparsa la storia collettiva, la narrazione di una Storia e non semplicemente delle storie.
Eppure, non è impresa impossibile.
Penso, da un lato, a Novecento di Bertolucci, a come attraverso storie individuali (ed ancor più attraverso lo scenario in cui sono collocate) abbia narrato del fascismo e del suo rapporto con le classi sociali, borghesi e proletari. O, per altro verso, a Baaria di Tornatore, che non è semplicemente la storia di una famiglia e di una cittadina del sud, ma uno straordinario racconto dell’emancipazione sociale, politica ed economica degli italiani.
Insomma, il cinema italiano non ha saputo narrare un epopea italiana (nemmeno della Resistenza, che pure avrebbe offerto materiale ricco ed in abbondanza), e in fin dei conti nemmeno offrire il suo contributo alla memoria – chè rammentare com’eravamo sino a ieri l’altro, aiuterebbe assai, soprattutto le giovani generazioni che dell’ultimo secolo di Storia italiana sanno ben poco e male.
Ci sono oggi giovani artisti che guardano al patrimonio culturale, ad esempio in campo musicale, con un occhio nuovo, capaci di ricercarvi radici che producano frutti nuovi. Sarebbe ora che si facesse strada anche una nuova generazione di cineasti, che il digitale rende ormai più possibile di ieri. C’è bisogno di un cinema nuovo.
autore: Enrico Tomaselli