Jimmy’s Hall: Una storia di amore e di libertà. Ken Loach torna al cinema con un film forse poco grintoso, idealmente stanco, che trae spunto dal passato per raccontare anche l’età contemporanea e l’ineluttabilità della sconfitta.
Basato su una pièce teatrale di Donal O’Kelly, a sua volta ispirata a fatti realmente accaduti, Jimmy’s Hall, l’ultimo lavoro del cineasta inglese Ken Loach, racconta del ritorno a casa dagli States di Jimmy Gralton, fascinoso giovanotto comunista, costretto a riparare Oltreoceano per conservare intatta la pelle mentre il suo paese d’origine, l’Irlanda, si consumava in una lotta fratricida (il paese combatteva per l’indipendenza dall’Inghilterra) destinata a non estinguersi col tempo.
L’uomo si ritroverà dopo dieci anni di assenza in una patria apparentemente ricucita, dove però l’odio e il rancore sono violentemente repressi, pronti a lasciarsi detonare alla prima occasione. Jimmy, magistralmente interpretato da Barry Ward, ritrova anche una madre solo apparentemente invecchiata e la donna amata, sposata ad un altro e ancora ardentemente desiderata.
Sembra che il tempo si sia fermato alla partenza dell’affinascinante compagno Gralton, pronto a ripartire col suo arrivo. Non è invecchiato Jimmy, non ha vagabondato per valli, né per colline e i suoi sogni e le sue idee non sono svanite. Sono salde, pronte a rivivere in quella comunità involontariamente abbandonata e ora finalmente ritrovata. All’epoca, prima di andare via, gestiva una sala, la Pearse-Connolly Hall, dove socializzare, coltivare una passione, dipingere, ballare, leggere tutti insieme. Attività evidentemente considerate rivoluzionarie nella contea di Leitrin e nell’Irlanda del 1920 così come dieci anni dopo, nel 1932. Jimmy riaprirà la sua sala sotto le pressioni di alcuni dei suoi concittadini (i suoi vecchi amici e i ragazzi cresciuti nel suo mito) e sarà una festa di vita, ballo, gioia, comunità. Ma sarà anche il pretesto per innescare nuovamente la violenza, l’oppressione, la demonizzazione in una comunità che finisce così per togliersi la maschera e lasciar emergere le lacerazioni che la pace non ha saputo riparare.
“Si comincia con i balli, dice, in una scena del film, padre Sheridan (il sacerdote, interpretato da Jim Norton, che, sentendosi minacciato dal bel comunista, contende con quest’ultimo la leadership sulla comunità), e si finisce con i libri”. E dopo i libri magari a qualcuno può venir voglia di cambiare la fede con il pensiero e la ragione, e allora viene meno il piedistallo sul quale si reggono l’oppressione, il potere e la violenza, abbattuto dal vento della libertà.
Ai fan più accaniti del registra inglese, Jimmy’s Hall potrebbe apparire come un film sottotono, poco grintoso, idealmente stanco. Quasi un’abdicazione del cineasta, una deposizione, un’ammissione di impotenza di fronte alla capacità di distruzione e oppressione dei potentati (vecchi e nuovi) contro i singoli e le comunità. Una sorta di indifesa constatazione dell’impossibilità di sovvertire lo status quo. Nel passato, come nella riduzione cinematografica, così come nel presente. Certo quei critici detrattori terranno bene a mente la necessità dell’autore di attenersi ai fatti e l’esistenza di quel vincolo di adesione alla Storia e ai fatti che impedisce la manipolazione del racconto scelto ma è proprio qui, e cioè nella scelta, che sembra rivelarsi l’intenzione profonda del regista, nella volontà e nella decisione di raccontare la storia di Jimmy e non di altri, nell’urgenza di dire che insieme si può creare qualcosa di bello e di positivo e di affermare, allo stesso tempo, che il potere – che nel film assume la fisionomia bonaria della chiesa di padre Sheridan e l’insopportabile meschinità di quel fascista di O’Keefe (il capo locale dell’Ira, l’esercito repubblicano, da non confondere con l’Ira che decenni più tardi opererà nell’Ulster, interpretato da Brían F. O’Byrne) – alla fine riesce sempre ad avere la meglio. È proprio in questo esatto punto che il regista sembra lasciare i suoi più accaniti fan come orfani, soli di fronte a un’inedita dichiarazione dell’incontrastabilità del sistema, condannandoli ad una impietosa morte civile e personale. Eppure, quasi mai il regista inglese ha parlato di storie vincenti (anche perchè è la Storia, quella appunto con la esse maiuscola, che ci consegna il pesante fardello di un continuo schiacciamento di quelle che sono le istanze dei soggetti di cui l’autore narra). E allora se nulla è cambiato nella poetica del regista perchè la sortita di Jimmy lascia così tanto l’amaro in bocca?
Certa critica, come il giornale di Confindustria, e cioè il Sole 24 Ore, ha salutato positivamente il film, inneggiando al suo “non essere ideologico”. Eppure la pellicola sembra invece consegnare allo spettatore proprio quella che è l’idea del regista e cioè la necessità di determinare una sorta di empowerment del singolo attraverso il fare e il vivere collettivo.
Ken Loach descrive un mondo possibile, replicabile nella realtà quotidiana di ciascuno, lasciando che lo spettatore si ritrovi involontariamente coinvolto nella necessità di costruire l’Alternativa. Ed è forse per questo che per alcuni quel finale sconfitto, è sembrato indigesto, perchè la partenza di Jimmy (incontrovertibile) può essere erroneamente assurta a dimostrazione dell’ impossibilità di mettere in piedi la trasformazione. Il film si rivela così un’opera che trae spunto dal passato per raccontare il contemporaneo, che lascia lo spettatore giù di corda, con l’amaro in bocca, dopo aver gustato il sapore della libertà.
Una nota. Una scena resterà memorabile: quella in cui due guardie irrompono nella casa di Jimmy per prelevarlo e si ritrovano caduti nella tela della sua straordinaria madre. I due agenti intrappolati finiranno per riparare, fuggendo goffamente da una finestra, regalando al pubblico un’ilarità diffusa e liberatoria degna del più fulgido slapstick.
autore: Michela Aprea