Dalla Nashville del country più ortodosso arriva un bagliore inaspettato di neo-psichedelia del versante 60,s (stranamente quelli di Terra d’Albione) che eccelle nelle intensità emotive beat, di quel lucido stupore di qualche generazione più in la e che – in questi protratti attimi di delirante sconforto creativo – porta quel minimo di solarità che fa sciogliere gli ascolti come un coloratissimo gelato al lampone.
Sono i The Paperhead, triade giocosa e frikkettona (Peter Stringe basso e voce, Ryan Jennings chitarra e voce, Walker Mimms batteria) che suona e canta immersa al centro di un eden stilistico nutrito a folk, beatnik e acido lisergico quanto basta da trasportare testa e pancia dell’ascoltatore in un mondo dolcemente stralunato, regno di linfe ispiranti Floydiane (Barrett) In a corner, i Kinks con None other than, Eye for eye e Old fashioned kind, dei sogni e le armonie a stampo Beatles con Frustation, dieci momenti per far pace con se stessi e con l’universo che vi bighellona intorno.
Le dieci tracce che tengono in piedi il disco suonano di una piacevolezza squisita, fresca e liberatoria, aromatica di Mary Quant, Hyde Park, Portobello Road, i fronzoli prog-field dei Jethro Tull con la traccia Nasty girl, e quel senso leggero di una generazione agganciata a sogni, miraggi e visioni ultra. Una band – i The Paperhead – che sa soddisfare un richiamo corale di musica sopra cui adagiarsi e rivivere sentimenti e non per perdersi in luogo sonori dalla devastante vacuità.
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autore: Max Sannella