Venticinquenne dell’East Coast trasferitosi nel profondo Sud degli Stati Uniti, a New Orleans, Benjamin Booker ha registrato a Nashville questo suo esordio omonimo con cui si sta guadagnando molta attenzione.
Booker è un eccellente chitarrista elettrico, ha una voce soul ma non di quelle eleganti e signorili: piuttosto caratterizzata da una pronuncia indolente e stradaiola che la rende realistica e punk mentre canta su una manciata stretta di tonalità, senza estensione, ricordandoci il primo selvatico e meno autocompiaciuto Lenny Kravitz che surfava tra white e black music, e si esprime con un piglio garage blues ed hard rock molto godibile che rende il disco meno inquadrabile rispetto ai tanti artisti simili che rovinano parte del proprio lavoro con leziosità superflue (di recente si prenda ad esempio l’inglese Jon Allen, con il comunque buon terzo album intitolato Deep River).
Il disco omonimo di Benjamin Booker, dalla copertina un po’ inquietante che non sappiamo bene come interpretare – forse la chiave è nel testo di ‘Have you Seen my Son’… – infila 12 brani dagli arrangiamenti elettrici molto seventies costruiti intorno al ricco suono di chitarra elettrica ed hammond su ritmiche robuste basso batteria e toni sempre in equilibrio tra la forma cantautorale soul tipo Jeff Buckley, Ben Harper ed il già citato Lenny Kravitz e la spinta garage riottosa à la Danko Jones e Black Keys.
Punti deboli, invece, la scrittura musicale limitata, con poche soluzioni, ed un blues elettrico un po’ troppo omogeneo come fondale di tutti i brani sebbene sempre snello e cazzuto, mentre è interessante osservare come un talentuoso giovane musicista nero che esordisce avverta l’esigenza nel 2014 di proporre nei testi dei suoi brani metafore e linguaggi che fanno parte del collaudato e fatalista immaginario blues da ben più di un secolo, ma che evidentemente sono ancora idonei a raccontare l’uomo: l’inesorabile scorrere del fiume come metafora della vita contro cui infondo è inutile opporsi nel singolo ‘Violent Shiver’, o l’imperscrutabilità del disegno divino in ‘Always Waiting’; e sembrano i dannati di Robert Johnson e di John Lee Hooker quelli che combattono contro i propri tormenti interiori, con un sottofondo di amarezza e sconfitta nell’aria, in ‘Wicked Waters’ e ‘Have you Seen my Son’, e il disilluso da un sogno andato in frantumi in ‘Happy Homes’.
Buone vibrazioni black in questo disco ad ogni modo non ancora in grado di lasciare un segno decisivo.
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autore: Fausto Turi