Phil Selway ci ha preso gusto, e quattro anni dopo Familial, album che lo ha visto debuttare come solista, esce con un altro disco, Weatherhouse (sempre con Cooperative Music), scavalcando addirittura il leader Tom Yorke nella conta degli album solisti.
Stavolta Selway si orienta verso orizzonti musicali più corposi e scuri rispetto al più lieve ed acustico album precedente, e riempie l’album di strumenti e di elettronica, avvicinandosi non poco allo stile degli ultimi Radiohead conosciuti, quelli di King of Limbs, e dello stesso Eraser di Tom Yorke, scritto tutto davanti al pc in una camera d’albergo.
Weatherhouse è stato realizzato in collaborazione con Adem Ilhan e Quinta, membri della band di Phil precedente ai Radiohead. Ilhan ha lavorato su produzione e enginereering, mentre Quinta si è dedicato agli arrangiamenti, lasciando il miraggio a David Wrench.
Cambiamenti e innovazioni sono sempre benvenuti, ma in realtà in questo caso il vero cambiamento Selway l’aveva realizzato con il quasi totalmente acustico Familial, lontano anni luce dai gusti Radiohead. Invece Weatherhouse li richiama da vicino, sia nelle scelte melodiche che negli arrangiamenti, negli arpeggi di chitarra, nelle basi elettroniche. La batteria, la sua batteria, ritorna lobotomica come in King of Limbs, e in certi passaggi sembra di sentire la sua storica band accompagnare la sua voce, soffusa e sussurrata come quella dell’ultimo Yorke.
Coming up for Air, prima canzone registrata e prima track del disco, è in questo senso emblematica: si svolge come una processione, a un ritmo mantra che ricorda i Massive Attack, su una base sempre uguale e su arpeggi molto radioheadiani.
Anche Around Again è soffusa e sussurrata: ma qui c’è più melodia, più aria e più spazio alla voce.
Let it Go torna invece alle arie spettrali e dissonanti a cui ci ha abituato la band madre di Phil: la voce sembra provenire da un vuoto assoluto, e fissa in maniera definitiva l’atmosfera dominante dell’album. Le canzoni sono come talismani (è una sua frase) che esplorano un mondo di speranze, progetti, connessioni e disconnessioni, sogni e paure: un album in fondo molto autobiografico, esperenziale, che vuole scavare, attraverso i testi, nell’intimo del protagonista quasi come fosse una seduta di terapia. E la musica sembra voler seguire questa atmosfera ipnotica, da viaggio interiore, con andamenti da trip-hop e effetti che fanno risultare la voce quasi proveniente dal mondo onirico (vedi Miles Away o Don’t Go Now).
L’esperimento è interessante, ma alla fine si colloca a metà strada tra uno degli album elettronici della band madre, e un’esperienza solitaria da psicoterapia in sala di incisione. A metà strada insomma tra King of Limbs e Eraser, e anche se la strada per arrivarci è stata del tutto indipendente, alla fine la sensazione è che Selway sia arrivato dove i suoi compagni abbiano già esplorato.
Un esempio su tutti è Ghosts, dove persino la voce sembra imitare Yorke, e nessuno che conosca bene i Radiohead farà a meno di riconoscere qui intro e accordi di Exit Music for a Film.
Dunque, in definitiva, un album minore, decisamente un side-project, come dimostrano anche i 38 minuti totali e le canzoni tutte da non più di 4 minuti e rotti e la mancanza assoluta di qualsiasi “esplosione” sonora dei pezzi. Se da questa prova Phil voleva misurare le possibilità di una carriera solista, non si può far altro che “rimandarlo a settembre”. Il che vuol dire al prossimo disco.
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autore: Francesco Postiglione