Il nono disco del trio newyorkese formato da Amedeo Pace (chitarra), Kazu Makino (chitarra, basso) e Simone Pace (batteria, voce) segna il passaggio dall’etichetta 4AD alla Kobalt ed accentua ulteriormente il gioco in sottrazione dei suoni e dei ritmi iniziato ormai da quasi 15 anni, ed il prevalere delle atmosfere glitch pop morbide, barocche ed evocative, proiettate nel sogno, addirittura stavolta con lo strumentale omonimo in apertura, al flauto, che riprendere la musica tradizionale orientale.
La spinta noise degli anni 90 è accantonata e Kazu Makino a questo giro prende maggiormente l’iniziativa tentando di spingere oltre il discorso: il linguaggio sonoro diviene ancor più esile ma accade una cosa nuova, imprevista: si abbandona a sorpresa il carattere mistico, cinematografico e nostalgico e con questo vola via la tipica intensità, mettendo a nudo una serie di vuoti sonori ed emozionali che vanno a svantaggio dell’album, rispetto ai suoi anche recenti predecessori comunque non indimenticabili; la scrittura è infatti ripulita dopo tre lustri dalla soffice elevazione psichedelica che segnò la svolta nel 2000 con Melody of certain Damaged Lemons su etichetta Touch&Go e che il gruppo ha poi declinato in vari modi soprattutto in esibizioni live molto emozionanti e su cui su disco s’è spesso adagiato, ma ciò che resta ora è un pop minimale, glitch, da bozzetto, in molti episodi francamente di poco spessore, troppo in ritardo rispetto agli specialisti del genere oltre che fuori tempo massimo, tra l’altro qualche volta con inattesi toni quasi cantautorali, lontani dalla vocazione del gruppo; ‘Lady M‘, ‘Penultimo‘ e ‘Defeatist Anthem‘ portano senz’altro il marchio di fabbrica dei Blonde Redhead, ma almeno la prima delle tre è piuttosto marginale guardando al repertorio medio della band e le altre due suonano già sentite pur essendo episodi abbastanza positivi; ‘The One I Love’ mostra un lodevole tentativo di fare pop d’avanguardia ma senza lasciare purtroppo segno alcuno; ‘Seven Two‘ e ‘No more Honey‘ sono fiacche, stancanti – la prima però ha un bel ritornello à la Sigur Ros – mentre la lunga ‘Mind to Be Had’, finalmente, è un fulgido raggio di luce anni 80 – sarà un caso che è l’unica in cui canta solo Simone Pace? – e ‘Dripping‘ tenta la carta dell’electro anni 80 puro, ma ancora una volta senza qualità. È un’aggravante che, scomparsa ogni tensione, al contempo manchino episodi significativi per spessore, o almeno in chiave pop. E poi, a dirla tutta: non è appiccicando 40 secondi di echi rumoristi del tutto estemporanei in coda ai brani pop, che li si rende più significativi!
La musica dei Blonde Redhead dunque scricchiola pericolosamente; il voto 4.3 rimediato su Pitchfork ed il 4 su Ondarock testimoniano la delusione montata intorno a Barragán, peraltro non unanime, va detto, perchè il trio rimane amatissimo, ma è lecito parlare di crisi creativa, di giusta ricerca di rinnovamento ma declinata qui piuttosto goffamente.
Ci avrebbe fatto comodo avere dai Blonde Redhead un lavoro da sbattere sul muso a chi sbava per il nuovo polpettone indigesto di psichedelia senile protorchestrale che i Pink Floyd – o il poco, pochissimo che ne resta… – si apprestano a pubblicare: così non è stato, peccato!
http://www.blonde-redhead.com/barragan/
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autore: Fausto Turi