autore: Alessandro Chetta
Un film di Cristian Mungiu con Cosmina Stratan, Cristina Flutur, Valeriu Andriuta
Tutti d’accordo che i film del ruvido Cristian Mungiu, classe 1968, siano di un buon mezzo mento più avanti degli altri runner del cinema europeo. Un esempio rarissimo di 35 mm del reale e al contempo perfettamente di finzione. “Oltre le colline” racconta uno spaccato di vita religiosa e sociale con la precisione di un documentario di entomologia. In questo riesce ad eguagliare l’ineguagliabile Palma d’oro 2007 “4 mesi, 3 settimane e due giorni” (titolo che ognuno ricorda come può, ho sentito gente dare i numeri per ricordare il titolo: “8 mesi 6 settimane” oppure “due mesi, 8 settimane”).
La storia – vera – racconta di due ragazze poco più che ventenni. La prima, Alina, torna dalla Germania e va a trovare l’amica, fattasi suora ultraortodossa, in un piccolo convento rustico, sbocciato nel nulla della provincia romena. Un tempo le due sono state ospiti di un orfanotrofio e amanti. Alina ora vorrebbe portarla con sé in Germania, dando per scontato un sì. Ma non ha fatto i conti con chi si oppone: Dio. L’amica suora-educanda è combattuta (dilaniata) e respinge le tentazioni mondane. Come? Ripetendo come un mantra i motti del padre superiore, che lei, orfana, chiama inopinatamente “papà”.
Il regista gioca su due opposti inconciliabili. La fede che biasima, addirittura odia, la vita da flipper dell’Occidente e viceversa. Due opinioni del mondo divise da una collina. Apparentemente è la furia degli atei a fare a pezzi il cosmo dei credenti. La protagonista Alina, archetipo della laicità bruta, si scaglia contro regole e gerarchie ecclesiastiche per strappare la sua amata al convento. In realtà, è una bella lotta. La violenza, sembra dirci Mungiu, è intrinseca anche e soprattutto alla claustrofobica mancanza di libero arbitrio delle sorelle monache, soggiogate più che emancipate dalla vita separata, capaci di singole pulsioni ribelli mai davvero incondizionate. Tanto che, e perdonate lo spoiler, alla fine i loro tentativi di placare l’idrofoba Alina si riveleranno platealmente invasati – senza rendersene conto la legano con catene a un legnaccio che assume forma di croce – e di raffinato sadismo (anche inconsapevole: ed è questa la lezione in più del film rispetto alla vulgata dei conventi-lager in cui si procurava dolore scientemente, vedi “Magdalene” di Peter Mullan del 2002).
C’è poi l’aspetto strettamente registico. Movimenti di macchina ridotti allo zero. Musica abolita. Se accade qualcosa in un’altra stanza – e qualcosa accade sempre – non viene mai mostrato, e tu sei lì che friggi per un’inquadratura in più. Da verosimile così la scena diventa vera: nella realtà non siamo ubiqui. L’assenza addirittura snervante di compiacimento pone Mungiu agli antipodi, per citarne due italiani, di Garrone e Sorrentino, e perché no, anche dei fratelli Durdenne. Esempio lampantissimo: cos’avrebbe fatto secondo voi l’autore di “Gomorra” di fronte a una giovane imbavagliata e incatenata ad una croce di fortuna? Ma è chiaro: una straordinaria inquadratura totale del letto di contenzione, magari in sottinsù mantegnesco per omaggiare “Mamma Roma”. Mungiu no. Ci lascia piuttosto supporre la potenza iconografica di una crocifissione ma non indugia mai sull’immagine fine a se stessa. Tanto che la “bella” inquadratura non verrà mai. Alina è ripresa sempre di lato, e chi osserva è costretto a guardare solo in una direzione. Riecco il verosimile farsi reale e la rinuncia al montaggio inteso come moltiplicazione del punto di vista.
Infine una nota per i poliziotti romeni. Dimenticate l’egotica strafottenza di “Diaz”, questi sono talmente irritanti e stronzetti, che ogni “mi dia i documenti” è una strisciata d’unghie sulla lavagna.