L’avvento dell’era elettronica ha investito anche il mondo delle arti, talvolta con esiti imprevedibili, e spesso non del tutto indagati. L’introduzione di strumenti digitali, infatti, non si riflette semplicemente sulle tecniche di produzione o sui media di distrib uzione, ma in qualche misura è intervenuta determinando trasformazioni più profonde, che attengono la natura stessa dell’opera.
In particolare, ci sono campi artistici in cui questa trasformazione è stata particolarmente incisiva, arrivando ad incidere sulla percezione stessa dell’opera, come ad esempio la musica acusmatica e determinate forme di videoarte.
I nodi d’intersezione tra musica acusmatica e videoarte sono vari, ed essenzialmente si riferiscono alla struttura concettuale ed a quella linguistica.
Concettualmente, la musica acusmatica nasce dalla registrazione di suoni, e/o dalla successiva trasformazione di questi attraverso una fase di post-produzione elettronica.
È l’aspetto sperimentale di tale procedimento (il famoso procedimento concreto in cui la composizione si fonda sull’ascolto diretto del risultato, in un costante go/back dal fare all’ascoltare, a partire da suoni creati o acquisiti e trasformati) connesso a una manipolazione dei suoni grezzi, già trovati, che spinse Pierre Schaeffer a coniare il termine di musica concreta. Termine che rinvia in modo esplicito a quello di musica astratta strumentale, che si concepisce a tavolino in maniera teorica (al di là di ogni contatto diretto con il materiale e la cui concezione passa per l’astrazione di una codificazione, di un linguaggio: il solfeggio).
Ugualmente, la videoarte nasce dalla registrazione di immagini, e dalla successiva trasformazione delle stesse attraverso una fase di post-produzione elettronica, quando non sono direttamente generate elettronicamente (computer graphic). La fase di montaggio del girato è fondamentale, quanto e più di quella della registrazione. Ed anche se, a monte, può esserci già – nella mente del videoartista – uno storyboard, un’idea di cosa dovrà essere il prodotto finale, l’esercizio del montaggio è di per sé fase di sperimentazione; come per la stesura di un testo, laddove pur essendo predefinito il concetto che si vuole esprimere, la forma nasce in corso d’opera, e si trasforma ed affina anche in relazione alle altre parti del testo.
É interessante qui osservare anche l’incidenza di un altro fattore, noto come remoteness, ovvero la distanza cognitiva che separa l’origine primaria delle opere dal momento della sua fruizione, e come questa vada ad incidere sulla percezione dello ascoltatore/spettatore.
Nel caso di un normale brano di musica, ad esempio Merry Christmas Mr Lawrence eseguito al pianoforte dal suo autore Ryuchi Sakamoto, abbiamo fondamentalmente 4 steps: l’esecuzione del brano da parte del musicista, la sua registrazione, la post-produzione, l’ascolto da un CD. Rispetto alla percezione di chi abbia assistito direttamente all’esecuzione, il fattore di remoteness è ovviamente maggiore, ma anche ignorando sia il brano che lo stile del suo autore, chi ascoltasse il brano riprodotto dal CD sarà perfettamente in grado di riconoscere che si tratta di una esecuzione al pianoforte. Pur non avendone visione diretta, l’ascoltatore riconosce il suono come prodotto da tale strumento. Ugualmente, si pensi ad esempio ad un video-clip. Ci sono degli attori sul set che eseguono una coreografia o seguono uno storyboard, c’è una registrazione video, una fase di montaggio, quindi qualcuno che vedrà il video in TV.
Anche qui la remoteness non interferisce con la percezione cognitiva.
Se invece pensiamo alla stessa operazione, con all’origine della musica acusmatica, le cose cambiano. In questo caso, il fatto che i suoni non siano prodotti da strumenti musicali, ma presi dalla realtà e poi trasformati elettronicamente, pone l’utente finale in una condizione nuova: egli infatti non è in grado di riconoscere i suoni che ascolta, né tantomeno di risalire la linea di remoteness; i suoni non rivelano nulla sullo strumento che li ha prodotti, e non esistendo un musicista che esegue quel brano, non sarà mai possibile assistere dal vivo ad un suo concerto. Lo stesso si verifica nel caso di un opera di videoarte, in cui le immagini siano ad esempio generate elettronicamente, e prive di forma riconoscibile.
La percezione sensoriale, infatti, è essenzialmente una questione esperenziale. La nostra capacità di riconoscere e classificare ciò che ci arriva attraverso i sensi, è frutto dell’esperienza pregressa. Sappiamo che quel suono viene da un pianoforte perchè ne abbiamo esperienza (diretta o indiretta).
Ed è questa la ragione che ci rende irriconoscibile l’arte astratta.
La musica e l’arte video, inoltre, hanno un ulteriore elemento in comune che, alla luce di ciò, può in taluni casi accrescere la difficoltà di riconoscimento: il fattore tempo.
Anche sotto il profilo linguistico, videoarte e musica acusmatica hanno dei punti in comune, poiché per entrambe la struttura dell’opera è caratterizzata dalla impresenza di una forma narrativa classica.
Indipendentemente dalla durata, un opera di videoarte si distingue dal cinema essenzialmente per essere non-narrativa; la videoarte esprime, non racconta. E questo indipendentemente dal fatto che la sua struttura possa avere o meno a fondamento una storia. Se il video artistico è il significante, la forma, il significato non corrisponde (quasi mai) ad una narrazione – cosa a cui, invece, corrisponde l’aspettativa del pubblico. Perchè nella cultura umana l’arte visiva con una dimensione temporale (teatro, cinema, videoarte…) è associata all’idea di narrazione.
Ugualmente, la musica acusmatica è un significante a cui non corrisponde un significato, riconoscibile come tale dal pubblico, in quanto la sua struttura linguistica (in questo caso fatta di variazioni armoniche e tonali) non corrisponde a quella che il pubblico riconosce.
In entrambe i casi, siamo quindi in presenza di un disagio percettivo: io pubblico non riconosco il tuo linguaggio, non riesco a matcharlo con qualcosa che appartenga al mio background culturale, e quindi si crea una barriera tra me e l’opera, il cui senso mi sfugge, generando una distanza.
Ovviamente, questa barriera può essere più o meno alta, e quindi produrre un disagio più o meno intenso. É, questo, un problema che in realtà riguarda tutta l’arte contemporanea, che ha operato uno scarto rispetto a tutto ciò che precedentemente ha rappresentato l’arte, cercando nuovi significati da esprimere, e quindi nuove forme per farlo.
Di là da aspetti legati alla tecnica, il modo in cui Michelangelo scolpiva o dipingeva, o quello in cui Beethoven componeva, erano coerenti con ciò che essi volevano esprimere. Quando le esigenze espressive si sono spinte verso nuovi territori, anche le forme sono divenute insufficienti, e conseguentemente sono a loro volta cambiate.
Così, tra un quadro di Pollock ed un brano di Stockhausen, c’è la stessa relazione che intercorre tra la Nona sinfonia e il David.
Ma la capacità comunicativa di queste forme d’arte contemporanea, in termini quantitativi, è infinitamente più bassa, perchè significante e significato sono frutto di una ricerca che non è (ancora) divenuta linguaggio universale.
Assistiamo quindi ad uno spaesamento sensoriale. Gli input che ci arrivano per il tramite dei sensi, in presenza di un certo tipo d’arte elettronica, non corrispondono a precedenti esperienze che ne consentano la classificazione. Il paesaggio sonoro o visivo che percepiamo non trova elementi comparabili in maniera certa, e da qui – appunto – lo spaesamento. In un certo senso, quindi, un opera d’arte astratta potrebbe essere comparata ad un test di Rorschach, in cui il processo di elaborazione di una qualche forma di corrispondenza, in mancanza della univocità di senso, fornisce indicazioni sulla psiche del fruitore piuttosto che sulla sorgente di questa interpretazione.
Se proviamo a comparare una tela di Pollock alle macchie di Rorschach…
É interessante notare che, ad esempio, lo stesso Pollock, parlando della sua pittura, affermava: “quando sono ‘dentro’ i miei quadri, non sono pienamente consapevole di quello che sto facendo.”
Quel che le arti elettroniche portano dunque prepotentemente in superficie, è in realtà un problema di molta parte dell’arte contemporanea. Un problema, diciamo così, di trasmissione di senso dall’artista al fruitore dell’opera.
La videoarte – probabilmente la più prossima al sogno sinestetico di Vasilij Kandisky, il quale sperava che i suoi dipinti potessero essere ascoltati – rappresenta in ciò il paradosso estremo: da un lato forma d’arte multisensoriale, e dall’altro – come del resto l’astratto Kandisky – segnata da un gap percettivo.
Probabilmente, quindi, c’è la necessità di operare sul piano della diffusione di questi linguaggi, mostrandone la grammatica e la sintassi, perchè divengano riconoscibili le forme espressive che li adoperano. Una alfabetizzazione al contemporaneo, magari passando, appunto, attraverso la formazione di nuove esperienze.
Pensando magari a forme in cui il ruolo del fruitore non sia meramente passivo, ma divenga a sua volta attivo, attraverso processi generativi che lo portino a fare esperienza di come questi si producano, e quindi a dotarsi di quegli strumenti cognitivi che consentono il riconoscimento successivo.
Per sfuggire allo spaesamento sensoriale delle arti contemporanee.
autore: Enrico Tomaselli