La scena alata e figlia di altri cosmi che scorrazzava negli anni Settanta tra Canterbury e stati d’immaginazione illimitati non esiste più, ma ha lasciato qua e la spore e molecole – modernizzate – che ne riprendono fili, frammenti per (ri)catapultarli in un nuovo sistema musicale che o bene o male non ne vuole sentire di acquistare cittadinanza negli anni zero, preferendo cullarsi – e a sentire ottimamente – nelle comode curve arrotondate.
Il preambolo per introdurre all’ascolto di Sound Mirror, dei Canterburyani Syd Arthur, quartetto che deve molto a spiriti d’antan irrequieti come Hatfield and the North e Caravan (per dirne alcuni), una formazione che – lontano da appannaggi nostalgici – ricrea alla perfezione la stilistica e le nebulose di un progressive colorato di atmosfere sognanti, nulla che contenga le eclatanti pindariche alle quali magari siamo stati svezzati nel passato, ma una sobria rilettura personale di quel tempo che non ha mai avuto tempo, di quel volo prosaico e sperimentale che – tra il psichedelico e stravaganti iniezioni jazzate – anche ora fa la sua porca figura.
Liam Magill (leader e voce) e Soci introducono anche step pop nella tracklist per ammorbidire l’ascoltatore e anche per dare il tocco “autonomo” ad un disco che lungo tutta la sua stesura ti prende man mano, riesce a sciogliere quelle titubanze iniziali per arrivare alla tesa totale dell’orecchio che oramai catturato dalle spirali voluttuose chiosa fanatico. Tre titoli su tutti per attrarre l’interesse, la straordinaria scia allucinata di Chariots, il sincopato alla Genesis Hometown blues e le visioni sdoppiate che in Forevermore fanno la forza primaria per una jam session galattica.
Non fatevi ingannare dall’apertura di Garden of time, ma proseguite in “avanti tutta”, c’è un piccolo mondo dietro tutto da slurpare!
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autore: Max Sannella