Krai edito per One little indian, apre le danze a Olga Bell, russa di origini, newyorkese d’adozione. In questo lavoro Olga tenta di ripristinare la tradizione per ancorarla al cosmopolitismo e di prove così, oggigiorno, ce ne sono a centinaia: vecchio e nuovo filtrano nei concetti di stasi e moto, parallelo, per nulla pregiudiziale, viziato però da esiti ideologici. Olga Bell, anche lei, cade nell’errore di conchiudere nel sincretismo l’equipollenza stratificata.
I Dirty Projectors sono il campione più appropriato poichè nei loro lavori non fanno altro che innalzare il procedimento sincretico a forma pop, passando per dei geni quando a ragion veduta non fanno altro che erigere pacchetti di colori diversi ad uno stesso contenuto. Bassa lega? Vero semmai il contrario: l’effetto è di immediata percezione artistica e, come la Bell, tiene botta alla standardizzazione di massa.
Trentenne, nata a Mosca, si trasferisce all’età di sette anni in Alaska, dove inizia a suonare il piano. Dopo essersi laureata al conservatorio di Boston decide di trasferirsi nella grande mela e qui acquista un laptop con cui inizia a ri-registrare. Dunque i primi vagiti sotto il nome di Nothankyou in compagnia di Tom Vek o nella formazione a quattro denominata – senza giri di parole – Bell, mostrano un’approccio out pop dove le parti cantate sono collocate in una spazialità altamente presettata.
Nel 2011 esce Diamonite, suo presumibile sophomore se si esclude un 7”, in cui prende piede una tecnica di mix up delle varianti percussive elettroniche. L’anno seguente la si vede entrare stabilmente nei Dirty Projectors e prende parte alle sedute di Swing lo Magellan. Ed ecco che arriva Krai “Volevo far rivivere le periferie della Russia come Krasnodar con le sue melodie cosacche o Kamchatka con i suoi ritmi chukchi. Krai è un viaggio attraverso il continente eurasiatico in 40 minuti”.
Via obbligata, visto il fine, l’analogico fondamentalista. Il livello di ricerca è confrontabile e, per quello che concerne la messa in atto più che la messa a punto, è un progetto riuscito. Vi si possono scorgere coloriti à la Cesar Cui (Krasnodar) o, andando a ritroso, il senso stretto di una byliny contadina (Stavropol, Zabaikalsky) che trova continuità nel nazional rock di Khabarovsk.
I preset sono un po’ scartati, preferendovi l’asse silenzioso delle parti (Kamchatka). Krai però non scioglie la fissità dei periodi, finendo per essere un rompicapo del tempo personale dell’autrice anzichè un lavoro d’accanimento etnico. Ciononostante segna un livello di maturità di Olga che si appresta a diventare uno dei nomi chiacchierati di New York.
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autore: Christian Panzano