Sono in anticipo, troppo in anticipo. Il Gattò è ancora vuoto e i musicisti non hanno ancora sbucciato gli strumenti che poggio un timido piede sinistro sul gres del locale di via Castel Morrone, trasecolo in cerca di un posto dove sedermi senza accorgermi di quanto faccia caldo dopo quindici minuti di autobus pieno così. Mi arrabatto sui tavolini fuori e ho fame, tanta; ombre di cibo non ancora servito delirano tra i cristallini. Provo a resistere, ma faccio quello che uno non dovrebbe mai fare quando ha fame e cioè ordinare da bere. In compenso ne approfitto per scribacchiare, racchiuse in qualche manchette, alcune idee senza capo nè coda, certe sembianze di cui spesso non ci si meraviglia per via dell’inquinamento psico-acustico, mi viene da dire.
Mi concedo quei pochi attimi di calma per pesare i concetti, riequilibrando la bile. Conosco finalmente Manuel Volpe, motivo unico di questa mia capatina al Gattò (locale che fra l’altro quest’anno propone veramente bei nomi in programma). Manuel mi racconta stralci della sua vita e io faccio uguale, è un ragazzo timido ma gentile, cerca di mettermi a mio agio. Mi fa i complimenti per come l’ho trattato in sede di recensione e io ricambio al suo album d’esordio.
Aria nuova, il locale inizia a riempirsi di persone e cibo, Manuel mi racconta dell’inizio del tour, della gioia che ogni viaggio sonoro dona, ma anche delle difficoltà economiche di un’impresa come quella di portare 6 musicisti quasi tutti freschi di conservatorio a spasso per quest’Italia che non ne vuole proprio sapere di pagare la cultura, figuriamoci l’arte. Piano piano la mente mi si schiude ad una leggera sensazione di inaridimento, come se la serata si fosse già conclusa lì, su quella battuta d’arresto, prima del tempo dovuto, stramazzata al suolo da un gancio forte della vita agra. Rapide strette di mano, sorrisi veloci e il gruppo è già in tiro.
Presenti in scaletta ovviamente quasi tutti i brani del debutto, tracce su cui il mio cervello si è ampiamente soffermato per dirimere vibrazioni, collocare scelte, tentare di comprendere espressionismi e durezze. L’elemento che corrobora Volpe è sicuramente il suo amore per la musicalità ellenica di derivazione sicula e non a caso l’autore mi conferma di aver approfondito in passato l’aspetto etnicomusicale delle varianti revivalistiche moderne. Un ellenismo però che vuole fare i conti con l’attualità: dal primitivismo americano al noir folk, dalle murder ballad alla poliedrica agogica mediterranea che conduce ad un world pensiero, sono tutte scuse per poter mischiare di destro e di mancino. Dove il sestetto sente di poter spingere l’acceleratore senza eccedere, lo fa.
Maria magdalena, languida e febbrile nella versione studio si aliena gemmando sui fiati e sulla batteria, creando pregevolissime iperboli tropicaliste sul calare del composto. In una Porto Empedocle dal prologo fischiettato, brano in cui l’ellenismo si ribalta perchè dal grave s’arrampica su vette d’acutissimo adagio, riemerge quell’unicità espressiva che ottimamente si sposa poi col manouche di Bored e il banjo pre war di A ruin, meravigliosa e contemplativa.
Ora, come tutte le belle serate è difficile non aspettarsi un regalo se pur piccolo, e Manuel questo regalo non se lo fa sfuggire. La sua versione di Copla guajira di Augustin Lara prende alla giugulare. Manuel frena il ritmo e dosa il pathos, coglie il cuore difficile di un bolero cavandoci l’arteria che el Flaco de oro diede a brani come Revancha o Noche de ronda; sceglie di seguirlo quel bolero più che prenderne le redini, cogliendomi assolutamente impreparato.
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autore: Christian Panzano