L’esordio delle Dum Dum Girls, I Will Be, targato 2010, era stato più che gradevole, tra ritmi surf e melodie indie, con una forte accezione pop. L’anno seguente si erano ripresentate con Only In Dreams, che subisce già un netto ridimensionamento, accompagnato da un lieve mutamento dello stile, che strizza l’occhio allo shoegaze e dimentica il fuzz originario, perdendo un po’ di ruvidità. Bene, questo Too True aveva il compito di circoscrivere con più precisione le coordinate stilistiche di Dee Dee e compagne. Non solo, ma anche definirne la potenzialità: formazione fresca e audace o gruppo da ricordare per qualche canzone efficace?
Senza bocciarne in toto il progetto, dopo il terzo appuntamento con lo studio la risposta pende più verso la seconda ipotesi. Troppo pochi i guizzi di new wave e troppo poco ispirata la scrittura per rimanere soddisfatti dopo questi trenta minuti di lavoro; troppo lontana la verve ai limiti del punk dell’esordio e troppo anonimi e sommari alcuni passaggi per meritarsi elogi.
Non che la musica delle Dum Dum sia completamente svuotata; qualche bel chitarrone sopravvive, la voce riesce spesso ad essere suadente, tanto che nelle melodie migliori riesce a piantarsi in testa, com’è compito del pop, e l’approccio wave, se coniugato al meglio, è vincente.
Come già detto, però, la scrittura non è sempre efficace, tutt’altro che costante e spesso incappa in una composizione fiacca, spenta e poco lucida. A tratti addirittura senza idee, tanto da diventare ripetitiva. Alla l’oscurità e la cupezza derivanti dagli amori dichiarati di Dee Dee, Patti Smith e Lou Reed, si somma una venatura di maledettismo, sugli impulsi delle letture estive della front-woman, Verlaine, Rimbaud e Baudelaire.
Le liriche si pongono spesso sui binari di Siouxsie, soprattutto quando amalgamata con degli interessanti e graffianti riff di chitarra, senza però possederne la profondità e l’incisività. L’accentuata presenza del pop, anche molto sintetico, nella composizione riesce, nei picchi, a richiamare band giganti nel genere, come i Depeche Mode, ma non con continuità.
Uno stile molto diverso, dunque, dall’esordio, ma che ha seguito una parabola precisa e sicuramente voluta, decisa a perdere il carattere più grezzo in favore di armonie più seducenti.
La partenza, la prima metà dell’album, lascia sperare in qualcosa di migliore, vista la brillantezza dell’incipit. Cult Of Love e Evil Blooms presentano quel suono maggiormente stratificato che era nelle intenzioni della band, capace al contempo di essere sintetico e attraente grazie alle liriche molto efficaci. Rimbaud Eyes, strutturata su una ritmica martellante e un cantato decisamente pop, già cala il tiro; più malinconica ed essenziale la seguente Are You Okay?, anch’essa molto ammaliante. La traccia migliore è Too True To Be Good, che parte su un ritmo surf per esibirsi in voci sovrapposte tipiche della pop-wave, per concludere con un ritornello sognante, che riemerge dalla cupezza del resto dell’album. In The Wake Of You e Under These Hands sono gusci vuoti, nei quali le atmosfere dilatate sono lasciate sole, senza una polpa gustosa. Lost Boys And Girls Club e Little Minx sono tracce oscure, lente, seducenti per la loro cupezza; chiude il lavoro Trouble Is My Name, brano più dimesso, fatto di un pop artificiale, non perfettamente riuscito.
Un passo falso, dunque, questo Too True. Tuttavia lontano dalla pappetta che ci rifila la media delle band del genere, questo album lascia comunque sperare in un futuro più brillante e roseo per le losangeline. Sta a loro recuperare la grinta dell’esordio.
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autore: Simone Pilotti