Presentato in anteprima al Festival Del Cinema di Berlino, “Marley” del regista Kevin MacDonald (“L’Ultimo Re di Scozia”), è uno straordinario documentario sulla vita di Robert “Bob” Nesta Marley, ripercorsa attraverso immagini di repertorio, filmati rari e – sopratutto – i racconti di coloro che hanno accompagnato la carriera e la vita privata (che, come mostrato dal film, erano due dimensioni dai confini a dir poco impalpabili) del musicista giamaicano.
Dall’infanzia passata a lavorare nei campi nel paesino di Rhoden Hall ai funerali di Stato che commuovono una nazione intera, passando per i primi passi da musicista a Trenchtown, quartiere borderline di Kingston, la nascita e l’evoluzione del reggae, l’incontro con il rastafarianesimo, le vicissitudini dei Wailers, gli amori, la fama mondiale, la malattia, il film di MacDonald racconta la storia di un artista la cui esperienza è stata un incredibile intreccio di sofferenza, amore, spiritualità, testardaggine e ispirazione.
Una storia “in salita” già dall’inizio: nato da padre bianco (un inglese presto dileguatosi) e mamma di colore, il giovane Bob impara da prestissimo cosa significa essere un emarginato (essendo discriminato per il suo colore misto), e a ritrovare nella musica, quella suonata con strumenti di fortuna, spesso auto-costruiti, la “via di salvezza” dall’inferno dei sobborghi di Kingston.
Le canzoni di Marley e la sua musica non sono al centro della narrazione, il regista si concentra piuttosto sull’evoluzione del personaggio Marley, sulla sua biografia di uomo e di (ad un certo punto) punto di riferimento per un’intera nazione.
Ma si possono comunque cogliere delle preziose testimonianze sulla genesi di un genere musicale, il reggae, che nasce quasi per caso come evoluzione dello ska, e della sua “adozione” da subito come musica tradizionale di una nazione, la Giamaica, appena resasi indipendente e desiderosa di costruirsi una sua propria identità cultirale.
Sono stupende la immagini di un giovane Lee “Scratch” Perry in cabina di regia alle prese con la registrazione dei Wailers, così come è interessante l’intervista al Perry di oggi (invecchiato e probabilmente con una serie di rotelle fuori posto), che spiega come lo ska fosse “perfect music for drinking and dancing, but it wasn’t spiritual music”, e di conseguenza come il reggae si proponesse come qualcosa di più “elevato” rispetto alle canzonette commerciali dell’epoca.
Interessanti anche le analisi dei testi di alcune canzoni: “Small Axe” (1970), è letta come esplicita “frecciata” alla Big Tree Records, sorta di “corporation” tra le principali etichette giamaicane dell’epoca, che avevano snobbato i Wailers (“If you are the big tree / We are the small axe / Ready to cut you down”), o “Cornerstone” (“La pietra che il costruttore rifiuta / Sarà sempre la testa d’ angolo”), come un chiaro riferimento al padre.
Il film, ovviamente, racconta, attraverso la voce dei protagonisti (Bunny “Wailer” Livingston, Peter Tosh, Junior Marvin…), la complessa e travagliata storia dei Wailers, incluse le incomprensioni, i litigi e le varie “dipartite” dalla band, in cui fu presto evidente che c’era spazio per un solo, indiscusso leader. Del resto Bob era un personaggio competitivo, in ogni cosa che faceva: anche quando giocava a pallone (è nota la sua grande passione per il calcio) nel cortile del suo studio-comune di Kingston non gli bastava divertirsi, doveva vincere.
Marley non era un santo, né tantomeno è intenzione del regista dipingerlo come tale: Rita Marley, moglie e corista della band, spiega come accettava con rassegnazione la poligamia di Bob, con la consapevolezza di non poterlo avere tutto per sé (e ricorda di come, in tour, doveva andare nel camerino del marito a staccargli le groupie di dosso quando era giunta l’ora di ripartire). E se nelle parole del figlio Ziggy il ricordo di questa figura paterna sfuggevole e non particolarmente prodiga di attenzione per i figli (undici, in tutto, da nove donne diverse) viene ricordata in maniera divertita, nelle parole e gli sguardi di una delle figlie, Cedella, il rancore nei confronti di un padre completamente assente, poiché interamente assorbito dalla sua arte, dal suo credo, dalla sua erba e dalla sua “cricca”, è evidente e malcelato.
Ma Marley era un incredibile comunicatore, e la sua valenza simbolica, al culmine della carriera, fu impressionante. Marley simbolo della ribellione verso l’oppressione, Marley simbolo di pace e libertà.
Sono straordinarie le immagini del suo concerto in Zimbawe, in occasione dei festeggiamenti per l’indipendenza del Paese africano: uno stadio in delirio e la polizia che a un certo punto è costretta a sparare lacrimogeni sulla folla poiché le migliaia di persone rimaste fuori avevano forzato i cancelli per entrare. Il pubblico che si disperde, la band che si dilegua e Marley sul palco che, quasi ignaro di tutto, continua a ballare.
Ma è ancora più impressionante la storia dei due mega concerti che tenne in Giamaica per cercare di allentare le tensioni tra i due partiti in guerra in quel periodo.
Nel 1976 fu invitato dal ministro Micheal Manley a fare un concerto gratuito (chiamato ottimisticamente “Smile Jamaica”). Due giorni prima dell’evento Marley subì un attentato (mai rivendicato) in cui rimase lievemente ferito (e con lui altri membri della band, tra cui la moglie Rita). Ciò nonostante il concerto si tenne. Ma Marley, sconvolto per l’accaduto, subito dopo decise di trasferirsi a Londra. Proprio nella capitale britannica, due anni dopo, lo raggiungono due loschi figuri, rappresentanti dei due partiti in lotta (e per lotta s’intendono omicidi, incendi, sparatorie nelle strade), il Jamaican Labour Party (JLP) e il People’s National Party (PNP), che lo invitano a tornare in Giamaica per un altro “concerto di pace”, convinti che la sola presenza di Bob sarebbe servita ad allentare la tensione. Marley accetta, e nel 1978 è il protagonista del “One Love Peace Concert”, le cui immagini sono ovviamente presenti nel film, compreso il momento topico in cui Marley, durante l’esecuzione di “Jammin’”, invita a salire sul palco i due leader di partito, Manley (PNP) e Seaga (JLP), e gli fa stringere le mani. Peccato che i due politici non sembrano, dalle immagini, molto convinti (e peccato che le violenze, nonostante quest’ennesimo tentativo, non si fermarono).
Tutto è raccontato con una sapiente alternanza di filmati dell’epoca e ricordi attuali: “Marley” è un documentario avvincente, coinvolgente anche per coloro che non si definiscono fan di Bob. Nonostante la sua durata notevole (quasi due ore e mezza), scorre piacevole, con il ritmo rilassato e costante del reggae. L’uscita in Italia non è stata ancora annunciata, ma è possibile acquistarlo “on demand” sul sito ufficiale. Io ve lo consiglio.
Autore: Daniele Lama
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