Il Frequency è un festival in via di sviluppo, se fosse una realtà geografica sarebbe tipo Singapore ma più sobrio nei comportamenti. Nasce nel 2001 per iniziativa di Radio FM4, la radio austriaca di rock alternativo ed elettronica più seguita dai giovani crucchi. Non deve stupire dunque se anche il target del festival oscilla tra sedicenni (sedicenti) e dignitosi pensionati tatuati.
Il grande salto nella comitiva dei festival maggiorenni il Frequency l’ha fatto l’anno scorso, quando il secondo giorno dei tre ha visto scritto il nome dei Radiohead come headliner d’eccezione, ma quest’anno evidentemente l’organizzazione si è un attimino contenuta nel budget per finire di pagare l’edizione dell’anno precedente. Headliners dei tre giorni rispettivamente: Muse, Massive Attack, Die Toten Hosen, un nome, quest’ultimo, poco sconosciuto al di qua delle Alpi, ma visceralmente seguito aldilà. Come dire Max Pezzali. Inoltre una fortissima impronta emo&punk di tutti i gruppi chiamati sui due palchi principali durante le tre giornate: dai Billy Talent ai Thirty Second to Mars, passando per Bad Religion e NOFX. E si sa che la minoranza emo d’oltralpe la comanda e in questo caso specifico l’ha comandata in fatto di vendite.
Alla stazione di San Polten, il paesino in mezzo alle alpi che accoglie il Green Park, da due anni base strategica del Festival, sembra il meeting mondiale di Green Peace feat. Associazione Internazionale Giovani Marmotte alcoliste: carichi di lattine di birra da costruirci palazzi, tende e stereo anni ottanta montati in prova generale al piazzale della stazione, ragazzi a torso nudo che si scrivono a pennarello il nome del loro gruppo preferito. Una frenesia pre-festival che si riversa, potenziata, negli accampamenti ufficiali in riva al fiumiciattolo artificiale che costeggia il territorio del festival come un fossato medievale.
Noi però quest’anno siamo grandicelli per certe cose e ce ne siamo andati nel campeggio VIP, quello con le docce calde e pulite, che però sono calde solo per i creativi, quelli cioè che se le riescono a immaginare tali.
L’ingresso è molto meno sbruffone di quello degli anni precedenti: solo due grandi palchi, il Race Stage e il Green Stage, più uno interno, nettamente più piccolo, per gli show meno barocchi. Una piccola stradina-bazar creata dagli stand di tatuaggi, magliette rock-trash, cappelli, piercing (un camper-studio itinerante), un tendone bianco sponsor by Camel con costante musica house-dance, l’immancabile palco Jack Daniels con sfide a Guitar Hero, ma soprattutto, sparsi nell’arena del Race Stage, innumerevoli camioncini di Junk Food e gazebo Zipfer, l’unica birra da 5 euro che disseta come l’acqua e non ubriaca. Simbolo morale del festival i risciò di pretzel giganti al formaggio, l’eau de toilette più diffusa tra la popolazione del Frequency.
Sembrava molto facile quest’anno organizzarsi con l’incastro degli show, per goderseli tutti, invece già dal primo giorno l’esperienza si rivela estremamente densa e difficoltosa. Si comincia con i Mumford & Sons sul Green Stage, ore 15, un sole che picchia forte e neanche una nuvola, raggiungo subito le transenne, in largo anticipo e non devo attendere molto per essere circondata dal folto pubblico internazionale. Non vedo troppi minorenni, sono soprattutto austriaci dai vent’anni in su che amano i Mumford; quella che sta accanto a me dice di aver pagato il biglietto soltanto per loro, per il resto del tempo si fa la vacanza al campeggio, col fiume accanto. Contenta lei, penso.
Nei 45 minuti a loro disposizione hanno sviscerato tutti i pezzi di punta a loro disposizione, da una bellissima “the Cave a Little Lion Man” un concerto pieno, perfetto sotto tutti i punti di vista sia per l’acustica che per la suggestione del luogo, i suoni amplificati quasi più dalle montagne che dall’impianto. Marcus Mumford, leader della band, si è rivelato un grande polistrumentista, passando dalla chitarra alla batteria più volte, mentre gli si affiancavano i bronzi delle trombe e tutti in quel momento, lo so per certo, si sentivano felici.
Alla fine del concerto, in lontananza, l’inizio dello show degli Shout Out Louds sul Race Stage. Ci incamminiamo verso la VIP area, una verandina riservata a stampa, artisti e fondamentalisti del festival. Alle 18 e 30 ci avrebbero atteso i Gogol Bordello: per sopravvivere sarebbe servito tanto Jack Daniels. E non avevamo torto. Dall’inizio alla fine il concerto dei Gogol Bordello è stato una guerra civile in mezzo a stati cuscinetto, dove nella guerriglia c’eravamo noi italiani, addetti al pogo violento, contenuto invece dagli austriaci semi impassibili e spaventati. Dietro la band punk ucraina un tendone gigante mostrava una fionda e la stellina rossa dell’URSS al centro, energia nazionalista che cozza con la commistione del punk universale delle canzoni dei Gogol Bordello, tratte soprattutto da Super Taranta, l’album del 2007 e Trans-Continental Hustle, del 2010, supportato con entusiasmo dalla stessa Madonna. Eugene Hutz, leader della band, canta a torso nudo come un dissidente politico che infiamma le folle e governa dall’alto le fila di una rivoluzione violenta, affiancato da una coreana-camionista e un folletto cattivo dai tratti rom che stanno ai cori e alla fisarmonica e percorrono correndo il palco in lungo e in largo. Ma il vero protagonista dello show è il vecchio violinista dalla barba lunga e grigia, lo stregone punk dei balcani, spina dorsale del pogo alla base dello stage. Un’ora di concerto che passa in un minuto, chiusa con Break the Spell, ma per chi ascoltava i Gogol Bordello per la prima volta, come noi, l’incantesimo era appena stato lanciato. Folgorati dai balcani.
Gli Skunk Anansie passano inosservati causa rigenerazione fisica in area vip. Risorgo per i NOFX, che mi impongo di vedere per rispetto alla mia adolescenza. Durante il loro concerto si materializza lo spirito americano disceso in terra: rutti, bestemmie e parolacce, insulti alla bandiera austriaca in nome di quella americana…e la gente che continua ad applaudire lobotomizzata. “Che fucking anthem avete in Austria? Fa schifo! Da questa sera, ecco il vostro Fucking Anthem!” grida al microfono Fat Mike e attacca con uno dei pezzi più celebri della band, Linoleum. E tutti dimenticarono gli affronti subiti. Dopo una breve tappa per i the Drums, che conferma a pieno le voci che li considerano ennesima next big thing del 2010, con uno show ballato e cantato come una lezione di aerobica anni ottanta guidata da Malgioglio, chi è sopravvissuto al giorno 1, riesce a tagliare il pubblico dei Muse e arrivare davanti. Il concerto è spettacolare e la Matt di Bellamy e compagni dichiara di essere ufficialmente nel Pantheon dei musicisti più grandi del mondo. Quasi due ore di show in cui vengono toccati i pezzi più caldi degli ultimi tre album, con una sola puntata nostalgica su Plug in Baby e una chiusura potente e densa con Knights of Cydonia. Le luci, la scenografia, la musica: niente si risparmia per il festival e quando a un certo punto iniziano a piovere bulbi oculari giganti sul pubblico ci si sente già parte di un dvd. Io personalmente mi vedo già a raccontarlo ai nipoti.
A l’una di notte chiude il Day park e si aprono le piste del Night Park, poco distante: un’area di tre capannoni adibiti a dj set Drum & Bass, Elettronica e Techno attivi fino alle 6 di mattina. Il Frequency è un festival che concede al massimo due tre ore di sonno. Non di più.
Il secondo giorno va ricordato per il muro elettronico del suono che ha iniziato a insorgere a partire dai Klaxons, freschi di ultimo album; James Murphy degli LCD Soundsystem in forma smagliante, dopo aver presentato a dovere il nuovo album in perfetto equilibrio tra rock ed elettronica, ha salutato il pubblico del Frequency con la dolcissima NY I love you e ha passato il testimone alla performance più suggestiva del festival, quella dei Massive Attack, che ha consolato gli animi di chi, come noi, avevano il cuore spezzato dall’assenza dei Black Rebel Motorcycle Club, causa lutto familiare di uno dei musicisti.
Un oscuro e sinistro presagio di morte si è affacciato sul festival viennese quest’anno, perché il terzo giorno il Green Stage ha annunciato la mancata partecipazione della band inglese Ou Est le Swimming Pool, sostituita da un gruppo di simpatici e allegri americani di cui nessuno ricorda il nome. Il gruppo di Charles Huddon si era esibito i giorni precedenti al festival belga Pukkelpop, dove, esattamente dopo lo show, il cantante si è suicidato arrampicandosi sui tralicci dell’amplificazione e gettandosi nel vuoto.
Una notizia abbastanza emo per essere diffusa nella terza giornata di festival, presa un po’ sotto gamba da tutti gli amanti del rock puro.
Due le esibizioni che mi hanno particolarmente colpito positivamente: la splendida Melissa Auf Der Maur, ex bassista delle Hole, che spogliatasi dalla celebrity skin, ha deciso di indossare i panni da sacerdotessa hard rock. Vestita di nero, china sul basso che suonava come lo suonerebbe un uomo, violenta, in tensione continua, accompagnata dalla chitarra dei Queens of the Stone Age.
Indimenticabile anima rock, come la roccia. E poi il giovane cantastorie svedese, Johnossi, e la sua cupa chitarra acustica che si intreccia di tanto in tanto a lontani echi blues. Poi basta. Poi siamo scappati dalle orde di ragazzini invasati per i Thirty second e i Billy Talent. Sentivamo dal campeggio le grida disumane semi-screamo che dovrebbero essere portavoce di una generazione. E poi si lamentano che nessuno li capisce o li ascolta.
Il nostro Frequency è finito al Night Park, tra i tendoni di elettronica e techno ci stava anche una stanzetta roccherroll. Una specie di territorio franco. Io ci ho messo la mia bandiera, ho aspettato un pezzo di Adam Green e sono andata via con un pretzel notturno al formaggio. Mi sembrava il modo perfetto per concludere questa edizione, sempre troppo Woodstock, nel bene e nel male.
Autore: Olga Campofreda
www.frequency.at – http://www.lastfm.it/festival/1306128+FM4+Frequency+Festival+2010