Diciamolo subito, lo spazio tradizionale di una recensione sta stretto e non poco a quest’opera proposta dalla Ribéss Records, perché al classico materiale audio in compact disc, per altro presentato benissimo in un digipack grande formato con tanto di libretto fotografico, viene affiancato un libro di racconti con rilegatura rigida, carta lucida e belle illustrazioni, il tutto confezionato in un elegante cofanetto.
Certo, nel mercato attuale l’abbinamento editoriale cd + libro non è più una novità, ma è bene sottolineare che qui non parliamo di un’uscita qualsiasi pescata dai cataloghi infiniti di Rizzoli o Feltrinelli, bensì di un kit stampato da una piccolissima etichetta discografica con tanta amorevole cura e costi che immagino quasi proibitivi, visto anche il prezzo di vendita fissato amichevolmente sul sito della Ribéss (www.ribessrecords.it) a soli 15 euro (altrimenti 10 euro per il solo cd e 10 per il solo libro).
Ribadito che si tratta di un prodotto di grande qualità sia per la vista che per il tatto, è giusto addentrarci adesso nei contenuti e per farlo partiamo dal disco “Mare morto“.
Non stiamo in realtà parlando di una novità assoluta, poiché tale lavoro era già stato pubblicato due anni fa dalla misconosciuta etichetta Il Vaso di Pandora, ma questa ristampa della Ribéss – anche tramite la diversa angolatura offerta dai racconti allegati – contribuirà giustamente ad accendere nuovi riflettori sul nome dei romagnoli Santo Barbaro.
Il loro è uno scheletrico cantautorato folk – la voce e la chitarra di Pieralberto Valli, il pianoforte e la fisarmonica di Giacomo Toni, il basso e il contrabbasso di Francesco Tappi, la batteria e le percussioni di Marco Frattini – che si fa carne palpitante nell’inquieta filastrocca de “Il mondo è la patria di chi non ha dimora“, nella bossa-wave alla Arto Lindsay di “Occhi immensi“, nella polverosa ballata Black Heart Procession di “Cecità” e nella litania elettrica alla CSI di “Nero deserto“, cantata da un Candido voltairiano che si dibatte impotente sotto il peso di ottimistiche certezze leibniziane: “non voglio più stupire né essere stupito / non cerco alternative se è vero che questo / è il migliore dei mondi possibili / non riesco più a guardare dietro alle cose / preferisco passare come in una processione / di umani pieni per metà / mi concentro sulle piccole cose“.
Un flusso di parole e note che si infiltra lentamente sottopelle e che richiede di essere assorbito nella sua interezza, vero e proprio concept album che sviscera con cruda autenticità il tema universale del bene e del male, ora nella scarna solennità di “Nuovi schiavi” (“hai mai osservato / lo sguardo dei nuovi schiavi / il vuoto che si nasconde negli occhi? / come potranno mai temere il tuo inferno / se all’inferno ci sono già?”), ora in una “Santo Barbaro” implacabile come fosse “La guerra di Piero” del ventunesimo secolo: “Ci credevamo angeli / portatori sani di un bene comune / in terra straniera / quando la sagoma apparve / ombra sulla collina / a noi giunse il profumo / dei suoi occhi di pietra / non esitammo / nossignore, noi non esitammo / ma liberammo una raffica / di colombe miti ed assassine / la terra si intrise di rosso / la sagoma cadde / qualche metro più a valle / come un sacco di riso sondato dal basso“.
Non una semplice appendice del cd, ma lavoro letterario con un suo autonomo spessore pur nella sua brevità (una novantina di pagine totali), i racconti di “Un giorno passo e ti libero” – firmati del cantante e paroliere dei Santo Barbaro Pieralberto Valli ed impreziositi dal lavoro grafico di Alessandro Degli Angioli (www.myspace.com/infoam) – evidenziano una scrittura asciutta, a tratti anche un po’ inguenua se vogliamo, ma estrememamente evocativa, germogliante immagini poetiche e colorata da pennellate descrittive di stampo espressionistico: “L’aria fredda, sospinta dalla brezza, mi arrivava da destra in una pioggia di lame appuntite e affamate“; “Mentre scrivo e guardo fuori dalla finestra che ho sul mondo, ho l’impressione che le nuvole, torpide, si dispongano come alunni durante una foto di gruppo“; “…le sue gambe spazzavano la polvere della strada battuta con la regolarità sinuosa delle serpi“; “I filari di vite, poco più a valle, sembravano turisti che asciugavano i loro corpi al calore del cielo dopo una nuotata ristoratrice“.
Attraversata come un filo rosso da cinque episodi titolati “Il signor Pereira“, cinque tappe di un viaggio attraverso il mondo all’inseguimento di una misteriosa figura personificante l’inafferrabilità dei nostri sogni, la raccolta vibra della giusta tensione lirica, con gli occhi – quante volte ricorrono gli occhi nei vari racconti e anche nelle liriche del cd? – prescelti quale simbolica porta di accesso al mondo delle cose e a quello dei sentimenti (vedi il commovente racconto “Avrai i miei occhi“) e con “Piccole luci“, bellissima favola sulla stupidità della guerra e l’insondabilità del male nella forma di dialogo notturno tra un lampione ed un soldato pronto a sparare, annodata perfettamente al fulcro narrativo delle canzoni di “Mare morto“: “Sullo sfondo, i pochi lampioni cominciarono a spegnersi uno dopo l’altro, fino a quando la campagna si mangiò tutte le case, tutte le stelle, tutta la notte. Il soldato si fermò, paralizzato. E la città continuò a respirare, ignara – o incurante – della minaccia nascosta fra i suoi campi. Quella notte, la pace dormì un sonno profondo, come non faceva ormai da tanto tempo. Il giorno avrebbe portato nuove minacce, nuove verità da difendere. Ma per una notte, almeno per una notte, la luce del mondo oscurò quella dell’uomo“.
Autore: Guido Gambacorta
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