Torino 21 luglio 2009 Stadio Olimpico, già Stadio Comunale
Davvero difficile rendere conto di momenti come un concerto di Springsteen, soprattutto per chi lo ha già vissuto tante altre volte: ogni parola sembra essere ormai abusata, ogni emozione ormai già raccontata, ogni aggettivo già adoperato. Eppure, bisogna tornare a dire le stesse identiche cose, che ormai si dicono da quando, ben dieci anni fa, il Boss della musica rock internazionale decise di ritornare a suonare con la sua leggendaria band. E cioè che Springsteen sembra ringiovanire con gli anni, che le sue versioni attuali di classici come Born to Run, Badlands, The Promised Land, sono anno dopo anno più intense, che insomma questo essere non solo sembra immortale, ma anche dotato del siero della giovinezza.
Sta di fatto che anche a Torino, come due giorni prima a Roma e poi a Udine, il Boss regala 26 pezzi di cui almeno due suonati per dieci minuti buoni, e alla fine del concerto il pubblico, benché al settimo cielo, sembra più stanco di lui.
L’inizio, stavolta, sembrava un po’ in sordina: Loose Ends non è certo la canzone che può travolgere subito, e Badlands e Hungry Heart sono sembrate un po’ due colpi giocati troppo presto. Insomma, si poteva pensare dai primi tre pezzi che stavolta il circo Springsteen fosse un po’ sotto tono: invece arriva dal nuovo album una Outlaw Pete suonata per dieci minuti, drammatica, intensa, che mette tutti d’accordo. E’ la volta di Working on the Highway, Working on a Dream, poi Murder Inc. e una versione non acustica di Johnny 99 stupenda, seguita da una inaspettata American Skin, bellissima.
A questo punto il Boss è ormai nel suo: gioca con un materassino gonfiabile che gli arriva dal palco, sceglie le canzoni da suonare dai cartelloni offerti dal pubblico, fa il buffone con Little Steven che non vede l’ora di fargli da spalla, e insomma la macchina del concerto è già al suo pieno. Arrivano Raise Your hands, Travelling Band (cover di John Fogerty), Drive All Night e Two Hearts, seguita da My Love will not let you Down.
Qui dove molti si fermerebbero già pensando al bis, il Boss prosegue con Waiting for a Sunny Day, The Promised land, My Hometown (da quanto tempo non la faceva in Italia…) una splendida e qausi inedita Backstreets, Lonesome Day, the Rising, e infine l’ormai classico trittico di chiusura: Born to Run, Land of Hope and Dreams, e la traditional American Land.
Il bis regala Glory Days, Dancing in the Dark (immancabile) e la cover di Twist and Shout, già sperimentata con successo l’anno prima sempre a San Siro.
Che altro dire? Che al confronto con Roma metà scaletta è cambiata, che a Udine sarebbe cambiata ancora, che piuttosto curiosamente l’album più suonato qui è quello degli inediti con ben 5 pezzi, seguito da Born in the USA e The Rising, mentre un po’ trascurato è Born to Run con solo due pezzi.
Ma sono dati da statistica, che non possono essere usati per misurare le emozioni e il divertimento che un concerto di Bruce dà: uno spettacolo unico al mondo, capace di coinvolgere anche chi lo guarda per la prima volta, capace dopo più di trent’anni di intensa attività, di far divertire anche loro che sono lì sul palco. Ed è questa forse la vera magia inimitabile di un live della E-street Band.
Roma 19 luglio 2009 Stadio Olimpico
È vicinissimo ai sessant’anni Springsteen, ma ha una carica che farebbe invidia a qualunque rocker ventenne. Ce lo ha dimostrato per l’ennesima volta domenica notte allo stadio Olimpico di Roma, dove il boss si è esibito per la prima volta, dove ad apprezzare il suo show eravamo in 45mila. A causa dei mondiali di nuoto il concerto è iniziato alle 22.30 e lui come sempre ha suonato per tre ore, durante le quali ha illustrato al suo pubblico l’ennesima lezione magistrale di rock. Sì ragazzi perché Springsteen è il ROCK. In lui convivono il blues, il gospel, il rhythm and blues, il noise, il groove, il folk, i testi dei disperati, la voglia di cantare una canzonetta scaccia pensieri ed il romanticismo. Sostenuto dall’immarcescibile E Street Band, una vera macchina da guerra, poderosa come nessun’altra al mondo, Bruce Springsteen ha esordito con uno dei suoi più grandi cavalli di battaglia, la cavalcata di “Badlands”, anche se, ed è l’unico neo di un concerto perfetto, la prima strofa l’ha intonata in maniera differente, per proseguire con “Out in the street”. L’ultimo lavoro in studio lo ha liquidato con tre brani: “Workin’ for a dream”, “Outlaw Pete” e “Surprise surprise”, mentre ha dato una veste rock’n’roll a “Johnny 99”, deliziando il pubblico subito dopo con la carica rock e chitarristica di “Seeds”. A proposito di chitarre, Springsteen continua a considerare la sua sei corde e quella di Lofgren e di Little Steven la regina del concerto, anche se lascia il dovuto spazio di tanto in tanto alle tastiere di Charley Giordano (che l’anno scorso ha dovuto sostituire il compianto Danny Federici), il piano di Roy Bittan, il violino della Tyrell, il sax di “Big Man” Clarence Clemons, con il validissimo sostegno del basso di Gary Tallent e la potenza della batteria di Max Weinberg. Springsteen spiazza tutti dedicando “My city of riuns” a L’Aquila e come sempre sceglie un pio di canzoni tra quelle richieste dal pubblico attraverso i cartelli che lui va a prendere, in questo caso ha cantato “Hungry heart” che la fa intonare anche ad un bambino impacciato, che lui amorevolmente prende in braccio, e la sfavillante “Pink Cadillac”. Per “American land” ospita sul palco, come a Genova dieci anni fa, la madre Adele Zirilli e la zia che si mettono a ballare con lui e ripesca dal passato l’esaltante “No surrender”, l’inevitabile “Born to run”, la romantica “Thunder road” ed “I’m on fire”, oltre a “Promised land” e la didleyana “She’s the one” allungata, rock ed esaltante. Altra grande sorpresa per i suoi fan più accaniti è “American skin (41 shots)”, oltre all’orcestralità degli arrangiamenti di “Atlantic city”. Per “Dancing in the dark” invita a ballare una ragazza e fa cantare una strofa di “Waiting on a sunny day” ad una bambina. Questa è l’ennesima conferma del contatto continuo che ha il pubblico, che con lui è l’altro protagonista dei suo concerti, che partecipa sempre con gioia ai suoi siparietti, fino al finale travolgente di “Twist and shout”.
Autore: Francesco Postiglione/Vittorio Lannutti
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