Non sarà l’olandese Roadburn Festival, ma lo S.H.O.D. diventa sempre più importante per le scelte della direzione artistica nonché unica vera vetrina del frammentato panorama stoner, doom ed heavy-psych in Italia. Tutto ciò è possibile grazie al lavoro di etichette, locali, webzine e gruppi che in un contesto difficile come quello italiano cercano di portare avanti un discorso sempre aperto ed in costante evoluzione in uno spettro sonoro molto esteso che va dalla psichedelia fino a forme estreme di metal. Si sa che qui da noi certi generi sono percepiti in modo estraneo rispetto ad un corpus musicale rock che si va sempre di più formando negli uffici marketing più che in reali happening e quando va bene si ritrovano invece cristallizzati in convinzioni anacronistiche per cui non esiste ‘psichedelia’ senza Pink Floyd o metal senza mostri, guerrieri e cimiteri! Fortunatamente esistono anticorpi resistenti in grado di offrirci eventi come questo e le cui grandi novità riguardano la durata del festival che si snoda lungo l’arco di tutta una settimana (i primi 5 giorni al Sinister Noise e la serata finale all’Init) dando così possibilità a diversi gruppi emergenti di esibirsi, un numero maggiore di bands straniere di forte richiamo ed infine un ago della bilancia molto più spostato sul lato ‘psych’ della faccenda che non su quello meramente metal. Le impressioni più forti che abbiamo ricevuto da questa lunga kermesse naturalmente riguardano le due serate finali, a cominciare dai romani Black Land che non sono affatto volti nuovi visto che il bassista ‘Pinna’ è il batterista dei Doomraiser e il batterista Cynar ne è la voce. Ma è proprio la voce – di Willer Donadoni – a caratterizzare i Black Land che discostandosi dai clichè di genere, innesta influenze sludge in un impianto sonoro più tradizionalmente doom-metal, creando così un melànge hard molto suggestivo. Grande attesa poi – e ben ripagata – per gli americani Radio Moscow, tre viaggiatori del tempo che arrivano dai più infuocati tramonti dei sixties per suonare il miglior hard blues di Yardbirds, Hot Tuna e Grand Funk con un’incredibile energia, come se quei suoni stessero nascendo adesso lungo un’improbabile asse Zabriskie Point / Sinister Noise. Ma Roma non è San Francisco e il giorno successivo si arriva all’INIT quando dovrebbero esibirsi gli Obiat, vecchi amici dello S.H.O.D. che non ci saranno. Sarebbe stato l’unico gruppo più stoner-oriented della serata e son stati rimpiazzati dai Midryasi da Varese. Al di là di una forte simpatia per il bassista e vocalist dovuta alla sua inquetante teatralità, non consueta per il nostro tempo, la musica dei Midryasi, come già nelle precedenti edizioni, non convince particolarmente. Brani strutturati anche secondo dinamiche piuttosto avvincenti si perdono su sonorità troppo old-style, soprattutto la chitarra, ma lo spettacolo risulta sempre molto divertente perché ogni volta finisce sempre allo stesso modo: membri ubriachi dei Doomraiser invadono il palco per fare i cori e dare prova concreta e tangibile della grande fratellanza, la cosiddetta ‘brotherhood’ che da sempre contraddistingue il doom e che non è così evidente in altre tendenze del metal. Quando è il momento dei White Hills la sala dell’INIT comincia a riempirsi poiché tutti vogliono vedere questo power-trio di cui tanto si parla (bene) ed ancora una volta sono gli americani di turno a doverci far vedere come si suona il rock and roll. Al di là del look anni settanta del truccatissimo leader Dave W. che farebbe invidia al più glam di tutti i glamster (ma non ai Guapo che non sono da meno), la musica dei White Hills è ancor più stordente di tutte le bands ‘heavy psych’ in giro poiché alla sua potente miscela space rock kraut hard, aggiunge anche elementi di quella che fu la scena neopsych inglese anni ‘80/’90, quella meno pop e più noise e circolare. Dave W è un folletto impazzito che corre sul palco per poi fermarsi in pose ed atteggiamenti che credevamo di rivedere ormai solo sulle foto delle enciclopedie del rock. La bassista Ego Sensation in short rosa è per contrasto immobile ed ipnotica. Il risultato è una bella rilettura del rock anni settanta in chiave moderna (in tal senso sono l’esatto contrario dei Radio Moscow). Gli italiani Witchfield legati ad un heavy doom vetusto e di epiche pretese lasciavano immaginare chissà quali grandi gesta, forti del drummer Thomas Hand Chaste, ex-Death SS, Paul Chain e Violet Theatre. ed invece, nonostante i richiami espliciti a tutta una tradizione di oscuro heavy rock, alla fine hanno annoiato. Come i Serpent Cult dal Belgio, sebbene rispetto ai Witchfield, si rifacessero ad un heavy doom più moderno. Del resto le voci femminili nel metal, salvo particolari contesti atmospheric-ambient, non sempre funzionano. Certo, Michelle è una gran bella ragazza e se in qualche modo lo spettacolo è assicurato non è per meriti canori. Le cose sono andate un po’ meglio nelle parti solo strumentali, ma non può bastare. E a chiusura di questa edizione, The Heads da Bristol. Sebbene questo gruppo a molti non dica nulla, di certo è una delle ‘cose’ più psichedeliche che ci sono in giro negli ultimi anni: una grande quantità di riff, distorsioni, fuzz, wha-wha e delay ed altre amenità atte alla fusione del cervello, un mantra elettrico condensato in un unico flusso sonoro cangiante e multiforme nel quale si entra e dopo un’ora si esce con la sensazione che siano passati appena cinque minuti. I magneti degli strumenti dei The Heads succhiano e risputano fuori il midollo del rock di Stooges, Monster Magnet, Hawkwind, Blue Cheer e Loop, spogliando in qualche modo ‘questo’ rock dalla mitologia di cui si alimenta, dal gesto epico in cui onanisticamente si rispecchia e restituendolo nudo e integro nella sua carica di elettricità pura, riuscendo nel raro tentativo di annullare la distanza tra la forma e la sostanza. Chiude così il quinto capitolo dello S.H.O.D. con presenze di altissimo livello qualitativo e si aspetta una sesta edizione che non potrà che essere ancora più grande.
Autore: A.Giulio Magliulo
www.myspace.com/stonedhandofdoomfest