Arrivammo al Fabrik alla spicciolata. Era la fine dell’agosto 1986, una parte del gruppo veniva da casa, con il Bedford arancione e la strumentazione, gli altri da Amsterdam, io da Stoccolma. Avevamo suonato in giro per l’Italia a giugno e luglio, poi ci eravamo presi un paio di settimane di vacanze. L’appuntamento sarebbe stato ad Amburgo, in una delle vie di Altona, alle tre del pomeriggio dove apparimmo puntuali, come per magia, tutti e cinque: Luca, Diego, Dante, Rinaldo ed io. Più tre o quattro persone al seguito, il Mefi che guidava il furgone, Alberto, un roadie, un fan tedesco. Faceva già freddo ad Amburgo e noi eravamo lì per suonare. Non in un posto qualunque, ma al Fabrik. Incastrato nel cuore di Altona, il posto esisteva già dal 1971 e da lì erano passati tutti i grandi, dal jazz al rock storico, da Miles Davis ai Grateful Dead per intenderci, fino a semi sconosciuti destinati ad un grande futuro, come gli U2 di “Boy”. Ed ora c’eravamo noi: i Sick Rose, la sensazione del garage rock, come diceva il poster all’ingresso.
Cinque giorni prima del nostro arrivo al Fabrik ci avevano suonato gli Sweet. Ero poco più di un bambino quando compravo “Fox on the run”, 45 giri di vinile puro, fanatico al midollo del gruppo ed ora calcare quello stesso palco mi sembrava il coronamento di un sogno.
Non erano passati nemmeno due anni da quando avevo accettato la proposta di Luca Re. Eravamo stati compagni di liceo a Rivoli, poi ci eravamo un poco persi di vista. Luca, che veniva da Sant’Antonino, aveva fondato con Diego Mese i Sick Rose, una band dal suono grezzo, particolare, con un occhio di riguardo per i Sixties, il garage punk, una musica da suonare dal vivo, che arrivava diritta al punto senza troppi dettagli. Torino in quegli anni veniva indicata dai giornali specializzati come la culla dell’underground musicale. C’erano decine di gruppi, tanto cuore e molta improvvisazione: Negazione, Statuto, Party Kidz eravamo tutti della stessa generazione. Noi, però guardavamo lontano. All’America prima di tutto, che ci insegnava l’essenza della musica che volevamo suonare e la critica l’avrebbe scritto da subito: “l’unico gruppo italiano a sembrare americano”. E poi alla strada, quella ci aveva incantato con le descrizioni di Kerouac e con l’iconografia delle band che amavamo, dannate e perdute: MC5, Sonics, Electric Prunes, gli Stooges con Iggy Pop.
Una partecipazione a due compilation (“Eighties colors” e “Tracce”) e poi la pubblicazione di un 7”, “Get along girl”, ci avevano aperto improvvisamente le porte di giornali e concerti e, soprattutto, a conquistare un pubblico famelico ed entusiasta. Intanto, la formazione si era stabilizzata con l’arrivo di Rinaldo Doro alle tastiere e Dante Garimanno alla batteria, un veterano dei Sixties che aveva suonato con i gruppi storici del beat italiano.
Nell’inverno 1985 incidemmo il primo LP. Lo registrammo – come “Get Along Girl”- in uno studio che Alessandro Rolle aveva ricavato negli edifici gotico-medievali dell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso. L’ambiente era spettrale. Suonavamo la sera, mentre fuori la nebbia e la neve coprivano la valle suggerendo storie di fantasmi e caccia alle streghe. L’atmosfera era da Black Sabbath, ma riuscimmo a fare un disco solare, “Faces”, che sprizzava energia e che fu ricevuto molto bene da pubblico e critica. Pochi mesi dopo avevamo già suonato dal vivo su Rai2 e nei locali mitici dell’underground italiano, dallo Studio 2 allo Slego, dal Piper al Big Club. Poi, nell’estate in giro per Germania e Olanda, mentre i lettori di Rockerilla ci votavano tra i migliori, dopo Litfiba e Gang. Tutto era accaduto in fretta, anche troppo.
In un’epoca dove non esisteva internet o il telefono cellulare, il nostro fan club riceveva decine di lettere da tutto il mondo: Usa, Brasile, Australia, l’Europa. Jello Biafra dei Dead Kennedys, il punto di riferimento del movimento punk americano, ci scrisse un’accorata lettera, definendoci il miglior gruppo della nostra generazione.
Gli impegni si accavallavano, al punto da non avere nemmeno il tempo per provare. Le canzoni nuove venivano quasi improvvisate e suonate durante i soundcheck. Il furgone, il Bedford arancione con il nostro logo in nero, divenne una seconda casa. Nella parte posteriore incastrammo delle tavolozze che servivano da letto, dove potevamo anche dormire in tre allo stesso tempo. Il viaggio e la musica si intersecavano indissolubilmente e ci trasportavano attraverso un’Europa che oggi non esiste più, idealista e ingenua, dove la vita si svolgeva nelle piazze e non nei mall o dove, per andare a suonare a Berlino, si veniva fermati dalla polizia della Germania dell’Est. Lontani dal pensare alla musica come un business, suonavamo con le band che amavamo ed era sufficiente: Fuzztones, Fleshtones (chi li ricorda in “Bachelor Party” con Tom Hanks?), Dream Syndicate, Miracle Workers, Vipers… E ancora dischi, tour, interviste, prime pagine sui giornali, la musica che respiravamo tutti i giorni: abbastanza per dire che fu la migliore epoca della nostra vita.
Intanto, il nuovo rock che sorgeva nella penisola reclamava di cantare in italiano. Ci pensammo e dicemmo di no. Noi guardavamo altrove, parlavamo – musicalmente – un linguaggio differente, che non aveva nulla a che vedere con la tradizione del nostro paese. Una scelta che alla lunga doveva attirarci il disinteresse del pubblico, sempre alla ricerca di mode, del nuovo che avanza.
Non importa. Nella musica tutto succede in poco tempo ed in poco tempo viene bruciato. Piano piano la band perse i pezzi. Il primo ad andarsene fu Rinaldo, poi toccò a Dante, infine a me. Luca Re e Diego Mese, invece, sono ancora lì (ora con George, Walter e Giorgio), indistruttibili e inossidabili, perchè il tempo passa ma l’essenza non è cambiata.
I Sick Rose sono per sempre, anche per noi che ne abbiamo vissuto solo una stagione. Cambiano gli orizzonti, mutano le priorità e passano gli anni ma dalla musica si rimane segnati per sempre.
Autore: Maurizio Campisi
www.thesickrose.com