Cosa poter chiedere di più ad un festival come il Primavera Sound? Ogni anno ci si ritrova a fare dei bilanci con un evento di proporzioni sempre crescenti, con un cast in cui la qualità della proposta artistica viene prima di ogni cosa.
Per criticare il festival si deve andare a cercare il classico “pelo nell’uovo”: fare riferimento alla scarsa qualità (non proporzionato al costo eccessivo) dell’area-ristoro, alla qualità del suono non sempre all’altezza, al fatto che la navetta notturna che riporta il pubblico al centro della città non è più gratuita, alle troppe, lunghe file che ci si ritrova a fare (per ritirare i pass, per cambiare i ticket per le consumazioni, per prendere il bus, per accaparrarsi un posto all’auditorium). Facezie, se si considera la mole di ottima musica che nei tre giorni del festival viene elargita dai sei palchi. Alla fine l’unica cosa di cui senti la mancanza (e le tue gambe non possono che concordare) è la possibilità di tele-trasportarti da un palco all’altro, o di poter essere contemporaneamente in due posti diversi. Ma di questo, per il momento, non mi sembra il caso di lamentarsi con l’organizzazione.
Il Primavera Sound quest’anno aveva un cast solo apparentemente “debole”, stra-colmo di nomi di nicchia, con un numero di grandi star molto limitato, e alcune inedite e stimolanti “aperture” a generi scarsamente “esplorati” nelle edizioni precedenti. Un cast che altrove avrebbe potuto causare un flop, ma che a Barcellona ha funzionato da richiamo per migliaia di persone da tutta Europa.
Dicevamo dei nomi di nicchia. Una categoria assolutamente relativa, considerando l’attenzione – in termini quantitativi e qualitativi – riservata per delle band che in Italia non riempirebbero neanche dei club medio-piccoli. Tra i concerti da ricordare c’è sicuramente quello degli Okkervil River, straordinariamente intenso ed emozionante. Will Sheff è il leader che non ti aspetti, capace di trascinare il pubblico – e la band – in un turbinio di melodie, arrangiamenti folk-rock elettrici e scoppiettanti. Memorabile.
Meno brillanti gli Enon, sul palco Vice Jägermeister, la cui posizione a ridosso del mare non è d’aiuto, visto che il vento contribuisce a rendere il suono ancora peggiore.
Compassati e meditativi i Notwist, capaci comunque di stravolgere le delicate atmosfere elettroniche che caratterizzano i loro dischi con corpose sferzate rock-noise, e di coinvolgere il pubblico con una versione memorabile di “Pilot”, a metà tra il pezzo originale, il remix dub e le schitarrate in memoria dei loro passati rockeggianti. Inevitabile che l’accoglienza sia più tiepida per i pezzi dei nuovissimo “The Devil, You + Me”, uscito da pochissimo.
Di rara eleganza i Tindersticks, in formazione extra-large, con tanto di fiati e quartetto d’archi. Ogni volta che Stuart Staples (nella prima foto) si avvicina al microfono è un colpo al cuore, tant’è profonda e meravigliosa la voce di quest’interprete formidabile.
Inutili i The Cribs, dalla presenza scenica e il look improponibili, che però sembrano non dispiacere alle nuove leve di giovani indie-rockers senza tante pretese. Il solito rock’n’roll brit senza arte né parte. Tutt’altra intensità quella dei violentissimi e rumorosissimi Pissed Jeans (nella seconda foto), col loro suono malato, ridondante, ipnotico, assurdamente ripetitivo ed alienante. Il loro concerto è estenuante e bellissimo, il cantante – una sorta di Iggy Pop narcotizzato – vaga su e giù per il palco grugnendo frasi insensate, mentre i tre compari (basso, chitarra e batteria: nessun orpello, per carità) violentano gli strumenti, oscillando tra potenza hardcore e tenebrosi scenari doom. Divertenti, come al solito, i Go! Team, che saltellano come grilli sul palco e mescolano generi e suoni in un clima di apparente anarchia totale, generando un meltin’ pot globale multicolore, allegramente sospeso tra la melodia e il caos.
Insospettabile – almeno per me – la notevole folla che acclama i super-energici Les Savy Fav che, guidati dal barbuto leader Tim Harrington, assoluto trascinatore di folle completamente pazzo, dispensano il loro rock’n’roll adrenalinico e incazzoso, pieno di riferimenti hardcore e tensioni noise, ad un pubblico adorante e divertito.
Lezione di stile da parte di Bob Mould e la sua band. All’ex Husker Du si potrà anche rimproverare una carriera trascorsa tra alti e bassi, ma dal vivo lo zio dell’indie-rock a stelle e strisce è un portento, così come la band che lo accompagna. E le sue canzoni sembrano tutte splendide, con la loro crosta di rumoroso power-pop incandescente ed un cuore melodico dolce e malinconico.
Compatti, precisi e convincenti i canadesi Holy Fuck (terza foto), con il loro electro-rock matematico e denso di groove. Come una versione meno celebrale e più divertente dei Battles, incastrano ritmiche quadrate e interessanti soluzioni elettroniche, rigorosamente analogiche (sul palco hanno anche un indecifrabile sintetizzatore che funziona con una pellicola 35mm).
Splendida sorpresa i Man Man, beccati a volo allo stand di myspace (dove le band ospiti tengono mini-show particolari, semi acustici o semplicemente “diversi”), con il loro inebriante cocktail di furia percussiva, canzoni sbilenche à la Tom Waits e improvvise increspature free-jazz.
Sul fronte elettronico-danzereccio, le cose più simpatiche le hanno fatte sentire le nuove star della nuova scena francese, il giovanissimo (un pischello, diciamolo) Surkin e il lanciatissimo Kavinsky, capaci di mescolare sonorità electro acide ad oscuri paesaggi psichedelici, retro-dance ed estetica urban-hip-hop. Veri trascinatori di folle, i Simian Mobile Disco – che si sono dovuti accontentare di un dj-set invece dell’annunciato live per problemi tecnici – sono pacchiani e piacioni al punto giusto, perfetti per un pubblico desideroso di scatenarsi.
Più prevedibili l’ormai stantio Thomas Brinkmann con la sua techno minimale avara di sorprese, Ellen Allien – troppo presa dalla ricerca della perfezione formale per entrare in sintonia con il mood del dancefloor – e i Tiefschwarz, comunque eleganti nella ricerca di soluzioni sonore austere e impeccabili.
Quest’anno il Primavera Sound sembrava voler omaggiare il meglio dell’indie-rock americano degli anni ’90, con la presenza di personaggi come Shipping News, Eric’s Trip, Sebadoh, Polvo, Silver Jews, Dinosaur Jr, Stephen Malkmus.
Quest’ultimo, con i suoi The Jicks da’ vita ad un set onesto, ma che sicuramente non passerà alla storia (del resto l’ex Pavement non ha mai avuto la fama di grande performer). Stesso discorso per i Sebadoh, quasi fuori luogo su un palco gigante come il Rockdelux, con le loro canzoni sgangherate, suonate senza particolare verve. Tutt’altro discorso quando il buon Lou Barlow si affianca a Murph e J Mascis sul palco principale, l’Estrella Damm, quando scocca l’ora dei Dinosaur Jr. Un concerto semplicemente commovente. Con J Mascis quasi nascosto dietro la criniera bianca, protetto da un muro di Marshall quasi surreale (non può non essere completamente sordo, ormai), e quelle canzoni capaci di catapultarci indietro agli anni dell’adolescenza, così rumorose e malinconiche, suonate spesso a velocità raddoppiata, ma col solito cantato sbiascicato. I primi tre dischi, ovviamente, in scaletta. Ma anche brani dell’ultimo, ottimo “Beyond” e – era ora! – ripescaggi dal periodo in cui dietro il nome Dinosaur Jr era rimasto il solo Mascis, come “I Feel The Pain” (accolta da un vero e proprio boato dal pubblico) e “Out there” (dal capolavoro “Where you been”, accolta da ovazioni e – posso scommetterci – qualche lacrimuccia). A fine concerto, orecchie doloranti e sorrisi smaglianti.
Superstar del festival, Cat Power, che ho trovato personalmente troppo noiosa, tutta presa ormai nel suo nuovo ruolo di blues-woman raffinata e patinata, e i ritrovati Portishead, protagonisti di un doppio show (il giovedì all’aperto e il venerdì nello splendido Auditori). Gelidi e distaccati, eppure capaci di un concerto assolutamente emozionante, con un uso parsimonioso dell’elettronica ed una voce, quella di Beth Gibbons, semplicemente perfetta, da brividi lungo la schiena. C’è spazio ovviamente per i brani di “Third”, il disco del ritorno – “Machine Head”, marziale e ipnotica su tutte – ma anche per quei piccoli-grandi classici della storia della pop music del secolo scorso che sono “Wandering Star”, “Glory Box”, “Mysterons”, “All mine”… concerto impeccabile.
Curioso che tra gli altri grandi nome figurassero due pilastri della storia dell’hip hop, Public Enemy e De La Soul. I primi sono protagonisti di uno dei più esaltanti momenti del festival. Supportati da una vera band che macina funk iper-adrenalinico, Chuck D e compagni fanno (e)saltare migliaia di persone con uno show formidabile, incentrato su quel caposaldo della storia della musica popolare che è “It Takes a Nation of Millions to Hold Us Back”, le cui canzoni (cariche di dinamite pura come “Countdown to Armageddon”, “Bring the Noise”, “Don’t Believe the Hype”, “Louder than a bomb”) a vent’anni esatti dall’uscita, mantengono intatta una carica sovversiva devastante. Immancabile, ovviamente, la super-hit “Fight The Power”, cha manda definitivamente in delirio la platea, quanto mai trasversale, in questo caso. Meno brillanti i secondi, con uno show sicuramente meno d’impatto e apparentemente più raffazzonato (non sono un purista del genere, ma non è una bestemmia per un gruppo hip hop di tale levatura usare i cd-j invece dei piatti col vinile?).
Sul fronte “revival”, che ogni anno al Primavera riserva belle sorprese, troviamo i Sonics, nel tentativo – riuscito solo a metà – di adattare un repertorio straordinario di brani violenti ed eversivi all’aplomb di musicisti attempati e nemmeno tanto convinti, i Mission of Burma (tornati a far dischi da qualche anno) e il loro frenetico post-punk intellettuale e dissonante, ma soprattutto i Devo, protagonisti di uno show indimenticabile.
Guidati da uno straordinario Mark Mothersbaugh (ovvero: come tutti noi vorremmo arrivare a sessant’anni), che funge da “collante” tra i membri del gruppo e da punto di contatto col pubblico, gli ex ragazzetti de-evoluti di Akron, Ohio salgono sul palco con gli immancabilI Energy Drome in testa e danno una lezione di stile a tutte le giovani band del festival, con la loro presenza scenica esilarante (i balletti in sincronia con corsa sul posto sono destinati a rimanere un ricordo indelebile) e il loro sound electro-punk potentissimo.
Una scaletta perfetta (del resto: come sbagliare quando si ha a disposizione un repertorio del genere?), con momenti in cui l’entusiasmo del pubblico sfiora il delirio collettivo: “Jocko Homo”, “Whip it”, “Peek-a-boo!”, “(I can’t get no) Satisfaction”… Gran finale affidato a “Beautiful World”, una chiusura perfetta, nonostante un momentaneo black out dell’impianto. Immensi.
Il festival si chiude con un temporale pazzesco. Bagnati fradici dalla testa ai piedi ci allontaniamo dall’area del Forum rifugiandoci dove capita. Torniamo nel nostro alloggio ridotti malissimo. Eppure, nonostante il malanno assicurato, l’unico pensiero prima della ri-partenza è: “l’anno prossimo dobbiamo tornare assolutamente!”.
foto-report:
PRIMAVERA SOUND PEOPLE
Autore: testo e foto di Daniele Lama
www.primaverasound.com