Miles Davis: l’arte di saper inventare.
L’aspetto che più di altri attanaglia e asfissia le produzioni musicali attuali – sia in ambito jazzistico, ma soprattutto in quel calderone che per semplicità etichettiamo come pop – è l’omologazione, lo standard uguale a se stesso, il continuo ripetersi e riproporre. Un’inventiva che non trova futuro, un movimento capace solo di sfornare ciclicamente new qualcosa; sia punk, new wave, rock o altro. Ecco perché ci sentiamo in dovere – anche a distanza di molti anni – di apprezzare e sottolineare l’opera di qualche grande artista del passato che di creatività e voglia di esplorare ne aveva da vendere. Viene in mente, così senza starci troppo a pensare, Miles Davis.
E’ un dato di fatto che la musica di Miles rappresenti una delle maggiori espressioni artistiche dello scorso secolo. Questo perché, oltre all’innegabile bellezza delle sue creazioni, l’inventiva, l’intraprendenza e l’irruenza delle sue composizioni non conoscono paragoni nell’intero – seppur vasto – panorama della musica moderna. Miles ha sperimentato, varcato confini, ridisegnato linee e orizzonti della materia sonora stessa divenendo, durante l’arco della sua strepitosa carriera, un’icona incontrastata: un esempio.
Tra i suoi dischi prenderne in considerazione uno che lo rappresenti per intero è impresa ardua e quantomeno improbabile. Perché Miles è stato un artista dai mille volti; la sua musica ha avuto risvolti inattesi e fantastici, tracciato iperboli lungimiranti dai colori sorprendenti.
Prendiamo ad esempio “Birth of the Cool” e “In a Silent Way”. Il primo, uscito nel 1957, è testimonianza delle sfavillanti session del ’49 e del ’50, eseguite insieme a musicisti del calibro di Lee Konitz, Max Roach, Gerry Mullingan, Kenny Clark ed altri. Un disco che naviga attraverso le suadenti atmosfere di quello che sarà conosciuto dal Mondo intero come cool jazz; esempio di di una musica distesa, fatta di grande eleganza interpretativa e dall’incedere vellutato. Miles si esprime su lunghi assolo, supportato dall’ottima sezione ritmica, flirtando di continuo con gli altri fiati con i quali trova un dialogo fitto e concreto, cercando in maniera naturale e spontanea la frase ad effetto, la coniugazione giusta di un verbo comune. Ispirato ai massimi livelli, cambia geometrie ritmiche e di composizione, sfrutta tutte le potenzialità di un suono denso e carico d’emozione.
Un disco celebrato da più parti come uno dei migliori di Miles ma che, sorprendentemente, può rappresentare solo una sezione, un ritaglio, della sua fantastica produzione.
Miles non sapeva stare fermo. Sperimentava, proponeva, magari sbagliava, ma sicuramente apriva porte e allargava i paletti dello stile ridefinendone i connotati.
Il secondo è dato alle stampe nel ’69: è la svolta elettrica, quella definitiva, senza vie di mezzo o tentazioni rimaste inespresse. Miles inizia a provare l’impatto degli strumenti elettrici sulla sua musica, è un viaggio sperimentale senza ritorno. Dà carta bianca a collaboratori di massimo livello. Fanno parte della combriccola rivoluzionaria Herbie Hancock, Chick Corea, Dave Holland, Tony Williams, Wayne Shorter, Joe Zawinul e un incredibile John McLaughlin. Le idee musicali si sviluppano fluide, libere da canoni e capaci di andare a toccare lidi incontaminati; spazi assoluti di quella che sarà conosciuta come fusion. La fusione di stili e culture, scuole e pensieri, ingredienti e sapori. La musica che sfugge alle classificazioni, il suono che è poesia e creazione, fantasia e colore. Il disco ancora oggi ha un taglio stilistico moderno; ennesimo indizio di un fattore di superiorità assoluta.
Questi sono solo due piccoli esempi di come Miles sia stato capace di percorrere vie lontane e diverse tra di loro, arrivando comunque e sempre a raggiungere un obiettivo concreto, mettendo nelle sue opere una passione infinita e un cuore grandissimo. Senza paura di passi falsi, senza fuorvianti secondi scopi; magari ad avercene oggi di Miles Davis!
Autore: Roberto Paviglianiti
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