Da evento per pochi “iniziati” a super-happening dell’indie rock (e non solo) da 44 mila spettatori (in tre giorni: 1, 2 e 3 giugno): il Primavera Sound di Barcellona è ormai per ogni anno l’occasione per constatare (o meglio, per “toccare con mano”, visto che certe cose si capiscono anche senza doversi fare migliaia di chilometri) che oggi come oggi è la Catalogna, e la Spagna tutta, “the place to be” in Europa, per tutti gli appassionati di musica.
Fare i confronti con la situazione italiana fa solo venire il sangue amaro. Non ci pensiamo ed andiamo avanti.
Il primo giorno del Primavera Sound è, tradizionalmente, quello di “riscaldamento”. “Solo” tre dei sei palchi allestiti sono in funzione, e l’atmosfera nell’enorme area del Parc del Fòrum (la location futuristica, a pochi metri dal mare, che ospita l’evento) è rilassata.
L’antipasto di questa lunghissima tre giorni di musica ce lo facciamo servire dai No-Neck Blues Band, sperimentatori oltranzisti di New York che si divertono a creare una poltiglia sonora totalmente anarchica, fatta di fiati dissonanti, percussioni cacofoniche e tanto rumore. Sul palco sembrano posseduti. In effetti sono l’ennesima band impegnata a riesumare lo spirito della no-wave. Gradevoli, ma non indispensabili.
Attorno al palco ”Rockdelux”, intanto, si affollano capelloni in chiodo di pelle nera (che poi, guarda un po’, non si rivedranno nei giorni seguenti). Sono di scena i Motörhead, che hanno deciso di mettere a dura prova la resistenza dell’impianto audio. Suonano ad un volume disumano, con un impatto davvero notevole. Il loro concerto è esattamente come te l’aspetti: violento ed efficace, per la gioia dei fan in delirio.
Tutt’altro mood si respira dalle parti del palco “Danzka Cd Drome”: Jonathan “Yoni” Wolf, col suo progetto Why?, crea da subito un’atmosfera intima e raccolta. Le sue canzoni, meravigliosamente in bilico tra indie rock, pulsioni elettroniche e reminiscenze hip hop, emozionano come poche.
I Babyshambles di Pete – tossico combinaguai moroso di Kate Moss – Doherty non meritano più che un ascolto distratto. Il loro rock’n’roll di terza scelta non appassiona, ma non è neanche questa schifezza che i più snob si accaniscono ad affermare.
Molto, ma molto più elettrizzanti i catalani 12twelve, che incendiano il piccolo palco “Fira” con il loro free-jazz-rock mozzafiato (consigliatissimo il loro ultimo lavoro, L’Univers”, prodotto da Steve Albini), in cui groove pastosi, fiati dissonanti e chitarre distorte s’incastrano con ammirevole naturalezza.
Poco dopo (ma sul palco Rockdelux) è la volta dei Yo La Tengo, tra le band più attese della serata, che decidono di presentare un set incentrato su pezzi inediti (del prossimo disco in uscita a settembre), fortemente orientato verso una dimensione dilatata/psichedelica. Il risultato è ambivalente: per alcuni è un momento di estasi pura, per altri una lotta contro il sonno.
La band in ogni caso si conferma come una sorta di bignami del rock degli ultimi cinquant’anni. Peccato che stasera sia messa momentaneamente da parte la loro vena più ironica.
Il gran finale è affidato ai 2many Dj’s e al loro consueto, irresistibile (sono le quattro di notte, le energie sono al limite, ma non si può restare fermi!) mega-frullato sonoro. Come sempre ce n’è per tutti i gusti: raffinatezze electro, spudorate parentesi house, ripescaggi dance anni ’90, super hit elettroniche (Aphex Twin, Prodigy), pillole indie-rock (Arcade Fire!) e hard-rock (AC/DC!). I fratelli Delwaele passano con disinvoltura tra generi ed epoche diverse, mixando praticamente qualsiasi cosa…purché faccia ballare!
Il secondo giorno s’inaugura di buon’ora (alle 16.00!) nello splendido “Auditori”, con Final Fantasy, il nome dietro il quale si nasconde una sola persona, il violinista canadese Owen Pallett, che tra le altre cose è il responsabile degli splendidi arrangiamenti d’archi degli Arcade Fire. Quest’anno al Primavera Sound è stata tra le cose più belle che abbiamo avuto modo di ascoltare. All’interno del suggestivo auditorium catalano, accompagnato soltanto dai deliziosi “lucidi animati” di Jeremy Gara, il suo violino e in alcuni casi dalla batteria di Leon Taheny, Pallet ha dato vita ad un meraviglioso spettacolo onirico, evocando malinconie inattese (The Artic Circle) e delicate speranze (Song Song Song), senza mai lasciare lo spettatore desideroso di qualcosa in più. Applausi meritatissimi.
A riscaldare il pubblico sul palco principale (l’Estrella Damm stage) ci pensano invece, qualche ora dopo, gli Yeah Yeah Yeahs. Divertenti e divertiti (tranne, forse, il chitarrista, che dopo aver subito un po’ di problemi tecnici decide giustamente di mandare in frantumi la chitarra), si confermano una gran bella live-band. Protagonista assoluta della scena la sorridente singer-frontgirl Karen-O, assolutamente magnetica. Senza dubbio più coinvolgenti i brani dell’ottimo disco d’esordio, “Fever To Tell”, rispetto ai più scialbi pezzi dell’ultimo lavoro.
Leggerezza pop e tonnellate di melodie dolci-amare, invece, investono il pubblico del “Cd Drome”, dove si esibisce Jens Lekman, contornato da una band di sole donne di bianco vestite. “I Saw Her In The Anti War Demonstration” e “You’re the light” i momenti più emozionanti. Jens si dimostra anche un buon intrattenitore, capace di improvvisare e fare il simpatico quando la tastiera fa le bizze e si deve sostituire. Una bella oretta di ammalianti canzoni indie-folk-pop, mentre sul palco principale i Killing Joke si riciclano senza probabilmente convincere neanche sé stessi. Bordate industrial-metal sinceramente innocue, parecchia noia e poca sostanza.
Purtroppo però la palma del concerto più noioso in assoluto va a quello di Isobel Campbell, sempre più convinta, ormai, di essere una country-star d’altri tempi. Rischiamo sinceramente di addormentarci sulle gradinate. Atmosfera sommessa, ma tutt’altro coinvolgimento emotivo offre il concerto di Stuart A. Staples (il leader dei Tindersticks, per intenderci). Un set elegante, raffinato, con la voce – stupenda come sempre – di Stuart avvolta dalle trame sonore profonde e sinuose tracciate da una band affiatata.
Mentre sul palco principale i redivivi Dinosaur Jr. fanno scendere qualche lacrimuccia a migliaia di aficionados, con un set ostinatamente incentrato sui primissimi lavoro in studio, quando J Mascis e Lou Barlow si volevano ancora bene.
Revival per revival, tanto vale andare a vedere cosa sono capaci di combinare le ESG, vera e propria “chicca” del cartellone del Primavera Sound di quest’anno. Personalmente non sapevo neanche che fossero di nuovo in giro, le sorelle Scroggins (seppure un loro ritorno, in questo clima di recupero di certe sonorità funk-wave, era auspicabile). Il loro concerto è divertentissimo. I groove secchi, minimali eppure super-coinvolgenti costruiti da basso-e-batteria sono portentosi. A meno che non si portino dei pesi di piombo nelle tasche, è assolutamente impossibile non ballare. I segni dell’età e i chili di troppo sono eclissati sotto sorrisi smaglianti e una grande voglia di divertire e divertirsi. Commoventi.
Restando nell’ambito di band tutte al femminile, ci godiamo con piacere qualche scampolo di concerto delle ottime Sleater Kinney, che ripagano la caldissima accoglienza del pubblico (è la prima volta che suonano a Barcellona) con un live tiratissimo, tutto chitarre incandescenti, piglio punk ed eruzioni bluesy.
Ma il vero show è quello allestito sul palco principale dai Flaming Lips. Erano esattamente cinque anni che aspettavo di vederli, dopo esser stato letteralmente shockato dal loro primo concerto cui ho assistito. Lo pensavo ora e lo ribadisco: un concerto dei Flaming Lips è un’esperienza indimenticabile, di quelle che fanno bene all’anima e che andrebbero prescritte ai depressi e agli ipocondriaci. Un concerto dei Flaming Lips sarebbe la risposta ideale a quelli che vi dicono che l’indie rock è roba da musoni depressi e problematici. Un concerto dei Flaming Lips è semplicemente una cosa straordinaria.
La band attacca con “Race for the prize” e capisci subito qual’è l’umore della folla: migliaia di persone che cantano la musica di un ritornello senza parole, con un impatto incredibile.
Se ne accorge lo stesso Wayne Coyne, che ammette di essere sconvolto da una simile accoglienza. Sul palco, durante il concerto, si dimenano un gruppo di aliene da un lato e degli scalmanati babbi natale (sic!) muniti di torce dall’altro. Il backliner è ovviamente capitan America, e a fotografare questo delirio ci pensa Wonder Woman. Wayne indossa mani giganti, si fa inquadrare in primissimo piano da una micro-telecamera posta sul microfono, gonfia palloncini extra-large, lancia chili di coriandoli, gioca con la macchina del fumo e con altri gingilli. E intanto la gente impazzisce con “Yeah Yeah Yeah Song”, suonata prima in versione quasi unplugged, e subito dopo velocissima; si commuove con una straziante e meravigliosa “Do you realize”, si esalta con la splendida cover dei Black Sabbath “War Pigs”. Tutti, ma davvero tutti, rimangono con il sorriso stampato in faccia per almeno un quarto d’ora dopo che lo show sia finito.
Sebbene siano ormai quasi le quattro del mattino, ci fiondiamo in prima fila per il concerto dei Robocop Kraus. Mai scelta fu più azzeccata: i tedescacci ci regalano un concerto potentissimo, divertente, dall’impatto impressionante. S’inizia con “Fake Boys”, per poi dar spazio ai brani – incredibilmente catchy – dell’ultimo, notevole, “They Think They Are The Robocop Kraus” e a qualche ripescaggio nella discografia precedente. Il cantante del gruppo pensa bene di saltare in mezzo al pubblico, facendo impazzire la security, mentre la band sul palco si dimena a dovere.
A fine concerto sono più che mai che convinto che tra le miliardi di band post-post-punk-new-new-wave uscite nell’ultimo lustro, i Robocop Kraus siano di gran lunga quelli con l’impatto live più convincente e genuino. Provare per credere!
La lunghissima giornata finisce col sole che comincia a fare capolino tra le ciminiere di una zona industriale non lontana dal Fòrum, accompagnato dai bpm inesorabili della martellante techno selezionata da DJ Rush.
Il terzo giorno, sabato 3 giugno, s’inaugura per noi con gli Shellac, che – curiosamente – si esibiscono nell’Auditori, solitamente destinato ad esibizioni più “tranquille”. Saliti di “buon umore” sul palco del monolitico auditorium del festival, Albini, Trainer e Weston, decidono di suggerire all’intera sala stracolma di alzarsi da quelle poltrone e di avvicinarsi di più ai loro amplificatori. Detto, fatto.
In pochi secondi l’aspettativa di un concerto “altro” degli Shellac, suggerita dalle potenzialità della location non proprio usuale per il gruppo di Chicago, viene completamente cancellata.
Il suono secco delle chitarre di Albini si infrange su più di mille persone in delirio ai piedi del palco. Ragazzi e ragazze (fan?) sicuramente molto più entusiasti di coloro che, poco alla volta, abbandonano un po annoiati il teatro, e che forse dagli “Shellac In Auditori” si aspettavano qualcosina in più.
Chissà invece cosa avranno pensato i fan di Lou Reed dell’esibizione del loro beniamino. Molti brani nuovi, poche concessioni al passato (però “White light / white heat” è un “ripescaggio” davvero graditissimo!) e, nel complesso, la sensazione che forse zio Lou non abbia davvero più granché da comunicare, appesantito da qualche ruga (e chilo) di troppo, e da un passato sempre troppo ingombrante. Una lunga (definitiva?) pausa di riflessione, probabilmente, potrebbe essere una scelta saggia.
Ben più elettrizzante il concerto di un’altra band da inserire nella categoria “a volte ritornano”, i Violent Femmes. Seppur anch’essi incredibilmente trasformati dall’età, i tre ci regalano un concerto da ricordare. Certo, siamo consapevoli di essere all’interno di una grande “operazione nostalgia”, ma ascoltare (finalmente!) dal vivo pezzi come “Blister in the sun”, “Country Death Song” e “Gone Daddy Gone” è un’emozione difficile da raccontare. “American music” è uno spasso, ed è bellissima anche “Jesus walking on the water” (“adesso suoniamo un po’ di bluegrass!”, annunciano), in cui – come su disco! – compare come ospite alla seconda voce Cynthia, la sorella di Gordon Gano. Ovazioni, applausi da spellarsi le mani e lacrime. Peccato solo per i Lambchop che suonavano in contemporanea, e che – per ovvie ragioni – ci siamo persi.
Tra l’uno (Lou Reed) e gli altri (Violent Femmes), la simpatica parentesi dei The Brian Jonestown Massacre, band che da più di dieci anni è felicemente imprigionata tra i clichè del rock anni ’60 (con gli Stones come ossessione e la psichedelia come lingua madre).
Poco dopo l’una, c’è una marea di persone (com’è ovvio che sia… almeno qui a Barcelona!) a seguire il concerto degli Stereolab, splendidi come sempre e più che mai decisi a deliziarci con un set “easy”, fortemente pop-oriented.
Sul palco principale poco dopo le due, salgono – vestiti con tute verdi (del Celtic Glasgow, of course!), sulle note della musica che accompagna in tv le partite della Champions League, i Mogwai. Ben consapevoli delle conseguenze per i nostri timpani, ci piazziamo sotto le casse. I ragazzi ci sembrano in formissima, e ciò significa che ci regaleranno un bellissimo viaggio sonoro. E così è. Per quanto criticabili (ripetitivi, poco fantasiosi e tutto quello che volete…), questi ragazzi sono capaci di scavarti nell’anima, e di amplificare – che ti piaccia o meno – le tue emozioni del momento, nel bene e nel male. Le loro esplosioni soniche sono colpi al cuore, i loro arpeggi e i ricami al pianoforte sono dolcissime carezze.
Lasciamo il noise emozionale degli scozzesi e decidiamo di andare a ballare. Con Justice e il suo acido set electro, aggressivo ma allo stesso tempo sexy e ammiccante; con Ellen Allien & Apparat, che sperimentano stanotte per la prima volta dal vivo il loro progetto in coppia (peccato solo che il volume sarebbe potuto essere più alto!), che convince in pieno!; con Erol Alkan, meno raffinato ma sicuramente più “di presa”, che consuma le ultime briciole di energia rimaste nelle nostre gambe, mentre – stanchi e felicissimi – osserviamo, per l’ultima volta quest’anno, l’alba domenicale che fa capolino dalle solite, ignare, immobili ciminiere. Hasta luego, Barna!
Autore: Daniele Lama. Grazie a: Francesco Renella (foto di Daniele Lama)
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