Nel 2009 dopo che Veckatimest li aveva proiettati tra le più interessanti novità del panorama indie di questo decennio e soprattutto dopo essersi trovati con il singolo Two weeks a toccare quasi con mano la popolarità vera e propria i Grizzly Bear hanno deciso di prendersi un periodo sabatico.
Dopo tante attenzioni da parte degli addetti ai lavori e del pubblico, il rischio di voler strafare e bruciarsi era infatti evidentemente dietro l’angolo.
In questi tre anni tante cose sono successe, i quattro ragazzi di Brooklyn hanno esplorato strade nuove e personali: Daniel Rossen ha riproposto l’identità chamber pop con l’EP Silent Hour/Golden Mile, Chris Taylor ha esordito con il progetto elettropop di Cant, ed è stato coinvolto anche in Forget di Twin Shadow. Ed Droste invece si è limitato, più modestamente, a duettare molto con Robin Pecknold, leader dei Fleet Foxes.
Ognuno ha trascorso questi anni nella propria nicchia, fino a quando il legame che univa la band non è tornato ad emergere. Come ha spiegato Droste in una intervista al New York Times: < <c’era il desiderio di essere autonomi, ma anche la grande paura nello stare da soli, e c’era questo interrogarsi costantemente su come fare a conciliare tutto questo: questo bisogno di spazio, ma anche questo voler essere vicini>>.
Alla fine i quattro si sono rincontrati nuovamente per scrivere e suonare musica, il posto prescelto è stato Marfa, una città nell’ovest del Texas. Un luogo del tutto assurdo per registrare un album (anche per loro) ma forse il più adatto per riscoprire, dopo tanto tempo, un senso di intimità. Da qui il ritorno a Cape Cod nella casa della madre di Droste, dove erano state gettate le fondamenta di quel piccolo gioiello che è stato Veckatimest. Ed è lì che tutto si è ricomposto nella maniera più naturale, dove la scrittura si è trasformata in da opera individuale a collettiva. Sarà per questa gestazione travagliata quanto sentita che Shields si mostra come il lavoro più coeso, maturo ed equilibrato già al primo ascolto.
Come un gruppo di maestri artigiani, i Grizzly Bear hanno lavorato sui dettagli, sugli strati, sulla bellezza della struttura. Cesellatori perfetti di arpeggi acustici, inserti di elettronica ed esplosioni improvvise di elettricità.
Dieci brani che sfiorano la perfezione tra i quali, ognuno può pescare a piacimento la propria gemma: Sleeping Ute con le sue suggestioni psichedeliche, impreziosita da una chiusura calda e sfumata. La solenne The Hunt con il suo canto dolce e dimesso. Speak in Rounds mistica e incandescente o infine la magnetica Sun In Your Eyes che alterna momenti intimi ad esplosioni solenni grazie al pianoforte e una splendida orchestrazione di archi e fiati.
“Shields” è album impegnativo e coraggioso, che rapisce proprio per la sua complessità, con un nucleo emotivamente pulsante che scava nella solitudine e nel dolore, nell’innocenza e nella gioia con cui guardiamo il mondo: < <You’ve fallen once, you’ll fall again and lean on/Your tired hands that crawl and grasp the soft ground/By the look on your face/You set out on a path never to arrive/By the look on your face/The burden’s on your back/And the sun is in your eyes>> (Sun In Your Eyes).
Una musica senza tempo dove si fondono l’armonia del pop e la raffinatezza del folk in perfetta sintesi di ciò che c’è di meglio nel progetto Grizzly Bear.
I Grizzly Bear sono tornati ad occupare il loro posto, una spanna sopra la maggior parte della band che abbiamo ascoltato in questi anni.
Tracklist: Sleeping Ute; Speak in Rounds; Adelma; Yet Again; The Hunt; A Simple Answer; What’s Wrong; Gun-shy; Half Gate; Sun in Your Eyes
Autore: Alfredo Amodeo
grizzly-bear.net/ – www.facebook.com/grizzlybear