Se ne è parlato molto, forse più degli anni passati e, molto probabilmente, anche per i motivi sbagliati. 10 giorni di musica, di quella suonata dal vivo, fatta di vibrazioni, chitarre, elettricità che viene incanalata ed esplosa attraverso coni e subwoofer.
Questo Neapolis festival, durato dieci giorni, era quello che serviva a Napoli. Peccato però che le contingenze lo abbiano fatto fuggire a Giffoni Valle Piana. Peccato o per fortuna, considerando che potrebbe essere questo uno sprone importante, il tassello mancante che potrebbe fare in modo che una buona parte del pubblico napoletano (abituato a ciò che in terra partenopea viene definito “il cocco ammunnato e buono”) si renda conto di ciò che aveva e che, almeno per le prossime due edizioni, non avrà più.
Tante sono state le inutili e sterili polemiche che si sono susseguite sin dall’annuncio dello spostamento in terra salernitana del festival più importante del sud-Italia ma che, appunto, sono rimaste inutili e sterili sino alla fine. “Chiamatelo Giffoneapolis”, “Potevate spostarlo a Venezia”, “Chiamate sempre i soliti morti che nessuno segue più”. Ma se lo “sforzo” di dover prendere un autobus, messo a disposizione dall’organizzazione a pochi spiccioli (sicuramente molto meno del costo di benzina e casello), dormire in un campeggio gratuito all’ombra di un uliveto e sopportare un’ora e mezzo di tragitto non valgono un’esibizione dei Dinosaur Jr o di Patti Smith (e, come al solito, anche di un’altra decina di band di alto livello), allora forse il Neapolis che meritano i napoletani, è proprio quello che si tiene a Giffoni.
Ci è stato impossibile seguire tutti e dieci i giorni del festival, esclusivamente per motivi di tempo, ma abbiamo assaporato a fondo il cuore del Neapolis: 18 e 19 luglio, Dinosaur Jr e Patti Smith come headliners, numerose altre band di apertura, tra cui le quattro vincitrici del contest Destinazione Neapolis. Ed è proprio ad opera di una di queste, l’apertura dei due giorni, cuore dell’intero festival. Le Furie mostrano un’ottima coesione sul palco ed offrono una mezzoretta di un buon rock, piacevole, nonostante il caldo. Si continua con i Jarman ed un bel post rock ricco di influenze diverse, che purtroppo si esibiscono di fronte ad una manciata di persone. Il sole è ancora alto ed è difficile mantenere la concentrazione. Ci pensano gli Azari & III a far avvicinare i presenti al palco, complici le montagne che avvolgono lo stadio, dietro le quali il sole inizia a nascondersi. Il quartetto offre un divertente electro-pop di ampio respiro. Uno dei due frontman, rimasto in pantaloncini dopo qualche minuto di show, si getta dal palco, cantando al riparo delle transenne. Dopo un sorso di birra offerto gentilmente dal pubblico delle prime file, decide di scavalcare l’ultimo ostacolo e ballare e cantare tra il pubblico. Un ottimo trasporto, uno dei piccoli gioielli di questo festival.
Sul Red Bull Tour Bus, dall’altro lato del campo sportivo, tocca ai The Last Fight: molto anni ’90, propongono un hard rock melodico, proiettato verso il primo grunge dei Foo Fighters, con bei cambi di tempo e un apporto vocale più che godibile. Tocca così ai Blonde Redhead, un pezzo della storia della musica sul palco, capaci di produrre un wall of sound da band post-rock con sonorità completamente diverse. Un rock pischedelico suonato a sei mani, in un’atmosfera sognante ma tremendamente concreta, reale, tangibile.
Il pubblico, più folto rispetto alle prime ore del pomeriggio, sembra apprezzare (ovviamente!) ed anche molto: impossibile staccare gli occhi dal palco, fino al “Grazie!” finale, dei fratelli Pace. Subito dopo, sul Red Bull Tour Bus, La Via degli Astronauti: microstorie di pochi minuti, urlate con enfasi, in una mescolanza di generi con forti venature noise.
Il tempo di un cambio palco e poi, sul main stage, Pierpaolo Capovilla & company: Il Teatro degli Orrori. Una scaletta diversa da quella a cui ci si era abituati negli ultimi mesi, ma la stessa energia distruttiva, ma contemporaneamente più che positiva, che è diventata il segno distintivo di tutti gli show del TDO.
Un’inaspettata Majakowskij gela il pubblico presente (più di un migliaio di persone), in un’immobilità estatica impossibile da interrompere, tanto imponente è il contatto creatosi che, transenne o meno, resta forte come una forza elettromagnetica prodotta dalla band. “Non basterebbe l’oro di tutte le Californie”, per ripagarlo: basta, invece, un lungo applauso che accompagna la band nel backstage. Il tempo dell’esibizione degli Shak&Speares sul TourBus della Red Bull (presenti anche alla scorsa edizione del Neapolis ed anche loro “figli” del contest dell’anno scorso) ed, infine, i Dinosaur Jr. circondati da un muro di amplificatori e testate Marshall, la band di Amherst (Massachusetts) appare sul palco come una visione religiosa, come circondati da una pallida aura benefica. Si respira, a Giffoni, un’aria che è difficile trovare da qualsiasi altra parte, in qualsiasi altro contesto. C’è molto nel sound dei Dinosaur Jr. che sfugge alla facile comprensione. E’ più una sensazione, impossibile da concettualizzare, da riportare ad uno stato reale e tangibile. E’, forse, semplicemente uno stato di benessere, causato dal perfetto equilibrio tra le parti che il gruppo statunitense riesce a raggiungere nella composizione del proprio sound, che mescola Mark Knopfler e i Primus, Bob Dylan e gli Screaming Trees. Harvest suonato da Kirk Hammet, Get yer ya ya’s out remiscelato dai The Grateful Dead. Uno spettacolo, nel senso più crudo, semplice e meraviglioso del termine. Suonano tanto e l’attenzione non cala mai. Si va a dormire contenti, con la sensazione di aver assistito ad un miracolo, tra le colline salernitane.
Dopo una caldissima notte in tenda, ancora sole su Giffoni Valle Piana. I numerosi baretti e strutture ricettive offrono però ottime soluzioni all’afa: dopo un paio di aperitivi ed un pranzetto a pochi euro e a due passi dallo stadio, gli amplificatori si accendono e si iniziano a sentire i primi riff dei Buffalo Kill. Probabilmente la migliore band di Destinazione Neapolis, sia per tenuta del palco (e per eleganza!) che, soprattutto, per capacità compositiva e innovazione.
Mescolano rockabilly a classic rock, ambientazioni sonore psichedeliche da peyote nel deserto ed una leggera, ma impossibile da ignorare, radice stoner. Il risultato è un’esibizione di altissimo livello, ridimensionata solo dall’orario, le cinque del pomeriggio: troppo presto e troppo luminoso. Resta comunque il desiderio di vederli per più tempo.
Sul RedBull Tour Bus, intanto, arriva il turno degli Humanoalieno. Una mezzoretta di sano pop-rock e si ritorna sul main stage, con il secondo gruppo di Destinazione Neapolis della giornata: i Fabryka. Rock elettronico con un bel filone pop, molto piacevoli ed interessanti. Un po’ fermi sul palco ma, tutto sommato, offrono un bello show. Non si può dire lo stesso di Francesca Monti, sul TourBus: uno spettacolo insipido di sola voce e basi che scivola via nell’indifferenza complessiva, un piano bar con qualche numero in più, ma niente di che. Meglio sentirla con una birra fresca in mano, seduti su un muretto, in attesa di qualcosa di meglio. Dopo l’esibizione degli I Used to be a Sparrow, bel sound post-rock senza però esagerare, con un pizzico di shoegaze e molte buone idee, sul main stage ritornano, a distanza di qualche giorno, i Tre allegri ragazzi morti. Dopo l’ottima l’esibizione del lunedì con Giardini di mirò, Epo e Katap, la band di Pordenone si esibisce di fronte a qualche centinaio di persone, molte poche maschere che ballano, e con il sole ancora alto. Poco importa: i Tarm riescono con naturalezza ad evocare storie, personaggi, atmosfere e situazioni oniriche come pochissimi altri gruppi. Giudicati (superficialmente) da molti come una band esageratamente teen-oriented, rappresentano con ogni probabilità una delle punte di diamante della musica indipendente italiana, fautori di una mitopoietica de andreiana, dove Lorenzo Piedi Grandi rincorre la Signorina Primavolta, dove Codalunga balla il reggae and roll. Dove dai “Quindici anni già” si passa al fratellino di 22 anni che ha scoperto il rock and roll, fino ai 28 anni de “La faccia della Luna”. Ogni concerto è un viaggio personale nella propria vita, ogni canzone è una tappa, ogni strofa è un momento vissuto. A tratti commoventi, a tratti esaltanti, tra un meraviglioso medley reggae che riporta al presente brani storici come “Fortunello” (in musica da uno spettacolo dell’indimenticabile Petrolini) ad “Hollywood come Roma”, dalla già citata “Quindicianni già” ad una magnificamente straziante “Come mi vuoi”, alla viscerale richiesta di libertà di “Voglio”, fino al finale catartico de “La tatuata bella”. Spettacolari.
Si passa al screamo senza troppo da dire dei Vacanza sul Tour Bus, seguiti dalla seconda esibizione de Le Furie, fino ai Joan as a Police Woman, altro magico momento dei due giorni Giffoniani.
Il progetto solista di Joan Wasser, ex compagna del compianto Jeff Buckley, regala al pubblico presente (di molto maggiore, sia di numero che di età, rispetto a quello del giorno precedente) un’oretta buona di pop-rock molto ben definito, con molti alti e pochi bassi, senza dubbio coinvolgente. Il climax ascendente arriva allo spannung con l’entrata in scena della star più attesa dei dieci giorni di festival.
Poche presentazioni, poche parole ma tanto amore: Patti Smith. La signora indiscussa del rock, eterea sul palco come un fantasma, i capelli intrecciati come un’indiana cherokee, si muove danzando, salutando il pubblico, sorridendo. Una figura che sembra impalpabile e che emana, appunto, amore. Un amore reciproco, stando al feedback del pubblico intergenerazionale, a pari merito con la stima che, chiunque abbia a che fare con il mondo della musica, dovrebbe provare per una personalità del genere.
Stima che aumenta esponenzialmente stando a sentire i rumors che raccontano di una signora Smith che, fino a poco prima della sua esibizione, aiutava gli addetti alla pulizia a rimuovere i rifiuti dal backstage, conversando amabilmente con chiunque. Possono sembrare cose da nulla, in effetti, ma basta fare rapidi paragoni con altre band, sconosciute al confronto, per capire che l’essere sempre fuori dal coro ed essere amati da centinaia di milioni di persone, dipende anche da queste “piccolezze”.
Il concerto parte subito, alla grande. Non si fanno aspettare i singoli e, dopo una lunghissima dedica “Ai poeti di ieri, di oggi, di domani, ai piccoli e ai grandi poeti, a Dante…” intervallata da lunghi applausi e momenti di vera commozione da parte del pubblico, anche la security non riesce a non canticchiare “Because the night”. Da una carica “We shall live again”, ad una manciata di brani da Banga, ultimo lavoro discografico della rocker, fino alla potentissima “People have the power”, in chiusura, a dare la buona notte, dopo aver ballato come una sciamana per più di un’ora e mezza. Una buona notte che è stata davvero degna di questo nome, anche grazie ad una inaspettata scoperta. Gli Is Tropical, trio squisitamente made in U.K., capaci di miscelare innumerevoli generi di matrice elettronica diversa, leggendo frasi metaforiche, del calibro di “Il futuro è come un uovo strapazzato”, in un italiano quanto mai stentato ma, proprio per questo, ancor più divertente. Poche centinaia di persone rimaste sotto al palco dopo il concerto della sacerdotessa, ma molto coinvolte in ciò che stava accadendo.
In sintesi, se è davvero possibile sintetizzare 48 ore di festival in poche righe, anche quest’anno il Neapolis si è dovuto confrontare con numerose difficoltà, muri di gomma, critiche non costruttive, banalità da sabato pomeriggio al bar. Ed anche quest’anno è riuscito ad uscirne a testa alta, proponendo un cast di tutto rispetto, portando in Campania (eh si, Giffoni, per quanto sembri lontana anni luce da Napoli, si trova proprio in Campania!) band che mai e poi mai si sarebbero esibite in altri contesti.
In attesa delle nuove e velenosissime critiche sul caldo soffocante (avrebbero potuto mettere l’aria condizionata all’aperto, no?) o sulle condizioni del manto stradale della Napoli-Salerno (anche queste non tarderanno ad arrivare…), non resta che aspettare la prossima edizione di quello che è ancora, a tutti gli effetti, il più grande ed interessante festival di tutto il sud-Italia.
Potete chiamarlo anche Giffoneapolis, se vi fa piacere.
Autore: testo e foto di A. Alfredo ‘Alph’ Capuano
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