L’aria umida non ha tempo, passeggio tra gli stand ancora semideserti, scambio i miei passi col suolo e rovisto tra la mercanzia. Suadenti ancelle promuovono e lasciano biglietti senza recapiti. Passo oltre e incrocio la prima sorpresa, un perfetto bus vintage pronto a trasformarsi nel palco Red Bull, in una zona d’ombra destinata ad accogliere di prato pezzi di pubblico. Proprio alle spalle c’è una accogliente sala stampa dove sciamano alla buon’ora, armati di penne e cartelle, i tra-scrittori musicali.
Le prime note, sormontate da un cappello nero, le mette in gioco The Niro, instaurando un intimo crocicchio elettrico sulla strada degli avventori. “About love and indifference” suona confidenziale ed elettrica, come la linea che tiene il suo spirito inquieto.
In precedenza era toccato, sullo stesso palco, ai napoletani Andy Fag & The Real Men da Napoli, protagonisti di un duro spasmo live dal piglio hardcore-punk.
Mentre il caldo insiste il main stage libera i Does it offend you, yeah?: il frontman è un giovane invasato con un cappelluccio azzurro che sembra uscito da un reparto psichiatrico. Il concerto è devastante, con la folla che si fa coinvolgere dagli incitamenti del pazzoide che non si ferma un attimo e attacca bordate elettro-tecno sostenuto da una cricca furiosa.
Al basso c’è un ciuffo nero saltellante con sotto una donnina atomica, mentre la batteria imbastisce le polveri pronte a deflagrare. Non una sorpresa, ma un invito: prima reggono il colpo, poi sparano in faccia. Il loro cavallo di battaglia, al momento, è il proiettile a nome “We are rockstar”, contornato da altre munizioni sparse.
In successione sul Redbull stage transitano i Velvet, che lavorano per estensione dal vecchio modello pop rock di singoli come “Spingimi” e “Volevo dirti tante cose” ai nuovi tentativi più recenti, con la presentazione del nuovo singolo “Serpenti”.
Il main stage a questo punto si catapulta nel cuore della Britannia con le suggestioni leggendarie dei Carbon/Silicon, nome che evoca simbolici dialoghi energetici e passaggi di tempo. Quei due distinti signori messi in ghingheri sul palco, Mick Jones e Tony James, già in pieno spolvero durante la conferenza stampa, dispensano minuzie rock e messaggi positivi, lungo il filo che passa da Clash e Generation X fino ai bis odierni con ”Should I Stay or Should I go” e “Train In Vain”.
Poi il buio lascia spazio ai Gang of Four, dal tiro inconfondibile.
Chiedetegli cos’è il Punk-Funk, a loro che del linguaggio scenico e della comunicazione politica hanno fatto carne da macello in tempi non sospetti. Se si aggiunge la propensione alla danza più nervosa e pulsante, costruita su di un basso indimenticabile, resta solo il tempo di godersi la foga teatrale di Jon King, dalle facce divise tra nervi e disgusto. E’ la loro prima volta a Napoli e il pubblico risponde assecondando le pulsazioni.
L’intervallo break vede alla consolle gli Stereo Mc’s, storico ensemble dei novanta, alle prese con un set di brani rifiniti da un costante dance-mood , che non può permettersi di ignorare nella sua ultima variante il riempipista “Connected”.
È l’ideale riscaldamento per il classico comando di fuoco alle polveri, quando sul palco arriva Norman Cook, in arte Fatboy Slim, il signor funk.
Lo schermo ripropone alla platea i suoi gesti, tirando il gioco con degli ossessivi e surreali video zeppi di simboli e icone pop. Dance di consumo che non risparmia strizzatine , come il micidiale e inflazionato stacco di Seven Nation Army, inanellando i classici Rockafeller Skank, Right here Right now, Praise You.
La notte scivola e la luna di falce che aguzza sormontava il palco è scomparsa.
Poche ore di stacco e il pomeriggio successivo riparte con l’energico rock in italiano dei Trikobalto sul palco principale e con il cantautorato folk-rock di JFK & La Sua Bella Bionda sul Red Bull Stage.
Sul palco principale, quando il sole è ancora alto, è la volta dei californiani dagli occhi a mandorla The Morning Benders, che incantano i presenti con il loro indie-rock delicato e sognante. E’ l’introduzione per la attesa sequenza italiana del Neapolis, che parte dalla malinconia elettrica dei Perturbazione.
I torinesi sono protagonisti di uno spettacolo d’altri tempi, una scia di brani densi di coscienza, disincantati e leggeri al punto da scivolare nel pomeriggio ormai vinto come un vinile immaginario: Se mi scrivi, Agosto, Del nostro tempo rubato, tra le chiacchiere col pubblico e le emozioni. Dimostrano ancora una volta di essere tra le migliori live band italiane in circolazione
Poi irrompono gli Atari, gruppo elettro-rock in piena evoluzione, capace di arricchire il tiro dance del primo album con atmosfere più spaziose. Il duo mette in fila, coinvolgendo il pubblico già numerosissimo, una serie di brani inediti (che faranno parte del prossimo album), che lasciano intravedere una maturità stilistica davvero impressionante. Il finale è invece affidato a “Poisoned Apple Pie”, primo singolo della band napoletana.
Ormai siamo nel cuore del festival. Devo aver perso l’orientamento, vista la presenza di un singolare spirito teen, quello tipico di certi festival europei, sporchi di partecipazione e di alcolici alleggeriti.
Al momento giusto mi accorgo dei 24 Grana arrivati sul palco. Mi sento a casa nonostante il primo pezzo che riesco ad ascoltare sia Traveller/Majcasajusta, un vecchio monile dello scrigno. La poesia ha i suoi tempi e non viene quando la si chiama, e così quando è il momento della dedica arresa di Accireme, chiedo venia, mi accosto e provo un lento a guancia. Solo il tempo di perdersi e il brano finisce, come se nella mia testa avessi solo venti secondi da dedicargli senza sparire tra le note. Si sente che mi piacciono?
Il cuore è quello, e si veste uguale. I nostri salutano, in questi giorni a Chicago dal maestro Steve Albini, la curiosa scia di un’elica darà i frutti del periodo americano degli scugnizzi punk-dub. Francesco Di Bella ossequia la folla con la solita grazia. “Magnifica esperienza”.
E’ sera alta e la magia prende il posto del rock, con monsieur Yann Tiersen, l’uomo di Amelie, compositore dal tocco onirico, che trasporta in un giocattolo a note la gente. Nenie e miniature, esplosioni verso il cielo, simpatie messe in fila. E alcuni brani dall’ultimi disco “The Big Echo”. Applausi. Siamo un film che non esagera e si adagia alla musica come un viso stanco sulla spalla. Tiersen fa il capitano del veliero a soffio. Dove si va stanotte? Solo un giro, il tempo di dimenticare che siamo qui per chiudere con Jason Kay, munito di diadema, che quando compare non c’è più spazio, i prati si affollano e arriva il funk, dolce di fiati e sospeso, col morso della danza sacrificato a un mood d’atmosfera. Il nostro si muove con naturalezza a dispetto degli anni trascorsi. Le punte dello show di Jamiroquai si chiamano “Deeper underground”, “Cosmic Girl” e soprattutto “The space cowboy”, in grado di riconciliare il tempo e far muovere, finalmente, gli ultimi passi prima del traffico di routine, tipico dei festival. Non so chi l’ha inventato, ma fermo all’ennesimo semaforo accendo la radio e incrocio “Accireme”.
Che dire di questo Neapolis? “Fantastica esperienza”
di Alfondo Tramontano Guerritore
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Il Neapolis è, in effetti, il festival cittadino, anche se non sempre riesce a imporsi nel difficoltoso e aggrovigliato tessuto sociale del capoluogo campano, e, Napoli molto svogliata, o semplicemente poco attiva, è coinvolta solo in parte, nonostante lo sforzo dei promoter per rendere l’evento quanto più simile ai grossi meeting internazionali.
Se facciamo una riflessione sul potenziale di un festival, laddove esso è ben strutturato e supportato dalle parti politiche e sociali, è riuscito a trasformare nomi di piccoli centri abitati totalmente sconosciuti, fino a farle diventare tra le più rinomate capitali indie-rock d’Europa, con numeri, risultati e quel che ne consegue in termini d’indotti turistici, economici e pubblicitari.
Se invece di quantificare in volgare denaro il risultato di un’operazione, si valuta sotto l’aspetto socio-culturale, un festival musicale per una comunità è ricchezza in termini di emancipazione, intrattenimento, socializzazione, tolleranza, ospitalità e anche di vivacità giacché la popolazione in Italia sta diventando grigia come i palazzi e lo smog!
Per quanto riguarda Freak Out, noi siamo un manipolo d’indie-malati e i festival sono il termometro dell’indie-rock. Cerchiamo di raccontare e valorizzare emozioni e momenti, inoltre avendo le opportunità della “penna”, abbiamo l’obbligo della ponderatezza.
A Napoli esiste una buona scena musicale che deve prendere coscienza di se prima che sia troppo tardi. Deve attrarre e accattivare innanzitutto i membri della stessa collettività d’appartenenza in modo tale da sfruttarne poi l’azione propulsiva anziché anteporre vizi capitali e interessi faziosi.
La critica è rivolta più ai membri della collettività in quanto si vanificano le sinergie quando una band da un palco annuncia, polemicamente e gratuitamente, di non esser presente su qualche compilation, oppure se al festival rappresentativo della propria città non ci sono banchetti o stand di etichette e dischi “autoctoni”, sostituiti sempre più spesso da gadget cool o T-Shirt alla moda, per non parlare dell’editoria musicale che è ferma agli anni ottanta.
Per nulla togliere agli ingegnosi, fantasiosi e creativi che propongono il loro colorato artigianato decorativo. Anch’essi sono parte integrante dei processi di cui sopra, ma l’analisi non è loro rivolta bensì a un network che non riesce a immaginarsi e svilupparsi.
Se un festival ispira uno spunto di riflessione, allora il Neapolis non può che crescere a fasi alterne in questo contesto e quindi va sottolineato lo sforzo di chi in un modo o nell’altro riesce almeno a portare avanti ancora una volta un progetto concreto, partendo dal nulla coinvolgendo diverse realtà che lavorano tutte a un unico obiettivo.
L’apertura del festival è affidata alle taglienti chitarre punk dei napoletani Andy Fag & The Real Man.
Segue sullo stesso palco Mr. Davide Combusti, noto, insieme alla sua band, come The Niro, autentica rivelazione italian indie 2008, con l’omonimo album. L’energico e melodico cantautorato rock, dall’aspetto anglosassone, accompagna un lieto momento di relax pomeridiano.
I Does It Offend You Yeah? aprono il main stage sotto un caldo da battaglia, paragonabile solo a quella di El Alamein. Il pubblico è compresso sotto una montagna di bassi fat e acidi tagli di sintetizzatore filtrati sotto tutte le bande di frequenza possibili per un computer! Dove non arriva l’elettronica ci pensa il rock.
L’esibizione dei Velvet è una gradevole parentesi nel bel mezzo della “British Invasion”, nonché rappresentanti per oggi della lingua italiana nonostante attinenze e atteggiamenti squisitamente “brit”.
Sono le otto e un sole “post-meridiano” illumina la scena ai Carbon/Silicon. Intenso sin dalle prime note, il passato Clash si fa sentire, travolge e coinvolge il pubblico, talvolta anche ignaro dell’illustre ospite! Nel finale, “Train in Vain” e “Should I Stay or Should I go” scatenano il delirio della platea, che finalmente si rende conto di chi ha davanti…
Le leggende post-punk dei Gang of Four. La band naturalmente punta su “Entertainment”, l’asso nella manica che li ha fatti conoscere alle masse, Jon King si dimena sul palco con la teatralità che spesso accompagna le band dell’epoca e l’inizio della performance è folgorante.
Passaggi dance e hip-hop di un altro illustrissimo esponente della cultura musicale inglese: Stereo Mcs, impegnato in un dj-set purtroppo quasi solo di transizione, però adeguato all’evento principale della serata. Tant’è che appena si ferma, tempo pochi istanti, che lo schermo a led in sovraimpressione sul palco s’illumina mostrando un omaccione che introduce alle note di “Right here, right now” dell’infallibile Norman Cook in arte Fatboy Slim. Non c’è un respiro o un accenno d’insonnia, rimanendo in un caleidoscopio dance punk che apre squarci psichedelici e immagini pop.
La seconda giornate del nespoli si apre con JFK e i salernitani Capitan Swing che tentano di esorcizzarlo con un mezzo punk-wave tiratissimo; e con i Trikobalto da Milano che schierano in formazione l’attore Marco Cocci (già Malfunk).
I The Morning Benders sono quartetto californiano, nuova promessa dell’indie mondiale, percorre il ponte del sound Brooklyn – Baltimora e, a dispetto di una prestazione brillante la band subisce la calura e la smania di questo New Psichedelic che stagiona in fretta.
I Milk White in pochi minuti danno un assaggio dei loro Ep “Plastic One” e “Prague” con il loro sound “velvettiano” .
In piena esplosione “inditaliana”, ecco una band di punta del nostro panorama: i Perturbazione. L’indie-pop a vocazione “dreamy” della band, attiva da circa due decenni e oggi capitanata da Tommaso Cerasuolo, si appoggia armoniosamente sui presenti come una piacevole passeggiata in riva al mare con tanto di brezza inclusa tra gli optional.
Sulle note di “Poisoned Apple Pie” gli Atari chiudono il loro concerto sul main stage del Neapolis. I ragazzi che hanno trasformato i bit in love, stanno crescendo e si avverte dall’elettrizzante sound del nuovo singolo “indietronico”,
24 Grana. E’ ormai arcinoto che il quartetto napoletano registrerà e produrrà il prossimo album atteso per il 2011, all’Electrical Audio di Steve Albini a Chicago. Frattanto la band, in grande spolvero, seleziona una scaletta tanto energica quanto riflessiva mentre uno spettatore dal pubblico mostra un cartellone con su scritto “Francesco Di Bella Sindaco di Napoli”. Non sappiamo se il cantante ha precise competenze amministrative o vuole succedere a un’altra nota voce di Napoli, certamente i live dei 24 Grana restano molto intensi e la band crea sempre un’atmosfera speciale col pubblico correi anche i temi parecchio crudi di alcuni loro brani.
Yann Tiersen è stretto tra i padroni di casa e l’evento clou della serata Jamiroquai. Il compositore di Brest merita il rispetto che si è guadagnato, il live è un’unica e meditativa colonna sonora che accompagna le stelle una a una mentre appaiono nel cielo blu di questa calda serata d’estate.
Infine spunta la stella più luminosa della serata. Jamiroquai è l’autentica pop-star e alle 23.00 circa, da un tappeto di carne felicemente sudaticcia si eleva un numero impressionante di telefoni cellulari che tecnologicamente riflettono come uno specchio il firmamento di cui prima. Aldilà di petti in dentro, pance fuori, esseri umani in stato di morte apparente, birre volanti, uomini d’altri tempi e donne di rara bellezza, si vede in lontananza il pennuto copricapo del grande capo Jason Kay. Il live della band di Manchester è una manna per i 15.000 fan accorsi da tutta Italia per questo cappellaio matto.
¡Que viva el Neapolis!
di Luigi Ferrara
(Ringraziamento particolare a: Alfonso Tramontano Guerritore, Gabriella De Vita, Emiliana Mellone, Irene Fazio, Luca Mauro Assante)
Autore: Alfono Tramontano guerritore / Luigi Ferrara
http://www.neapolis.it