“Il punk è libertà espressiva”
Kurt Cobain
Lo sguardo nel vuoto rivolto alla folla in delirio. Il pogo. La saliva. Lo stage diving. Le urla. Accordi sbilenchi di chitarra. Un basso monotono. Pestoni di rabbia sui tamburi. E uno scantinato. Un buco, qualche spettatore incazzato. Variegate forme di manifestazione della rabbia giovane filtrate attraverso il caleidoscopio di una boutique londinese.
In una parola: punk. Originariamente, il nome della fanzine edita dal negozio, un posto di moda e tendenza gestito dalla strana coppia Malcom Mc Laren – Vivienne Westwood. Solo un modo per rimettere in circolo e riutilizzare, dissacrare. Un tentativo di fare soldi e realizzare la grande truffa del rock’n roll, “the great rock’n roll swindle”, dal titolo di un film sui Sex Pistols. Promozione, marketing. Idee. Poi arriveranno le creste, le spille, i lucchetti e le catene.
One, two, three…
Tutto nasce in inghilterra nel 1977, è vero. Dietro ci sono gli scontri sociali di Notting Hill, l’integrazione razziale, gli anni ‘70 che volgono al termine. Il movimento hippie è in agonia, la classe operaia freme. I sussidi per la disoccupazione rendono nervosi. I giovani iniziano a orientare la rabbia, mentre il rock’n roll sta macerando nuove vibrazioni. Pochi anni prima Lennon ha chiuso i giochi con un lapidario “Dream is over”. Il progressive e l’hard rock sono stanchi e affannati, i ritmi stanno cambiando. Dall’America arrivano segnali chiari di rinnovamento: la miccia parte del CbGb’s, locale newyorkese, che ha ospitato i concerti di Television, Stooges, Patti Smith Group. Il messaggio della triade arriverà come una slavina nel regno unito. Ci sono i New york dolls, Richard Hell e i Voidoids, con l’inno della “blank generation”, le magliette stracciate e i corpi asciugati, tesi come corde. Poi ci sono i Ramones, che del punk sono i diretti precursori. Look da teppistelli, giubbottini di pelle, approccio fancazzista e puro, diretto rock’n roll. “Sheena is a punk cocker”, “Now I wanna snif some glue”, “Blitzkrieg bop” sono l’abbecedario da mandare a memoria. Mezz’ora per il primo, omonimo disco che uscirà nel 1976: sarà la prima pietra. Chitarre affilate, estrema semplicità. Ritmi veloci, proiettili pop di due, tre minuti.
Nel ‘74 Malcom Mc Laren, impresario inglese dalla vista lunga è in America. Non sa che è destinato a diventare la mente dietro il gruppo più rappresentativo del movimento punk. Dalla sua boutique inglese, che chiama Sex, nasceranno i Pistols di John Lydon, alias Johnny “il marcio” Rotten. Il suo ghigno, contornato dagli occhi assenti, deriva dalla malattia che da piccolo gli ha lasciato in eredità anche il soprannome di “meningite”. Il gruppo è composto da quattro tipacci glabri ed emaciati, pronti a diventare la formazione più oltraggiosa del regno unito, con la sapiente regia mediatica di Mc Laren. Nel quartetto subentra anche un altro teppistello al basso: è Sid Vicious, il volto che meglio rappresenterà il destino dell’intera scena. Una fiammata sconvolgente che lascerà tracce ovunque, segnando un confine netto. Un fuoco brevissimo e lacerante che brucerà molti gruppi e molti personaggi in nome del nichilismo. I Pistols intanto iniziano a sfornare singoli su singoli, chiave di volta per l’assalto al sistema: in tempo per il giubileo arriva la dissacrante “God save the queen”. In Italia, per giocare con le prospettive, avrebbe potuto essere una versione schizzata dell’Ave Maria cantata da Roberto freak Antoni. V’immaginate? Altro inno e programma di battaglia è “Anarchy in the U.K.”, piccola dichiarazioni d’intenti suonata da dilettanti rabbiosi. Entrambi i pezzi volano in classifica per poi venire ritirati dal mercato. Sono oltraggiosi, indecenti. Finiranno nell’unico album del gruppo, “Nevermind the bollocks, here’s the Sex Pistols”.
I quattro intanto devastano e inveiscono, insofferenti a qualunque regola, come da programma. In diretta dal battello “Queen Elizabeth” sul Tamigi, Mc Laren organizza un concerto-happening con i suoi protetti, proprio mentre la città festeggia la regina. Arrivano i bobbies, è il disastro. Ma la trovata funziona, e nel frattempo in tutto il paese, con epicentro Londra, nascono e crescono gruppi su gruppi che ridanno vita al corpo stanco del rock’n roll. Jam, Damned, Buzzcocks, Adverts, Stranglers in Inghilterra, gli anarchici Crass, gli scozzesi Exploited che canteranno dell’innocenza di Sid Vicious, gli irlandesi Stiff Little Fingers di “Inflammable material” (su etichetta Rough trade) e gli Undertones degli indimenticabili “Teenage kicks”, rifatti in stile malinco-bossa recentemente dai francesi Nouvelle Vague. Ma anche Saints e Radio Birdman in Australia, con i primi emigrati a londra a lanciare l’inno “(I’m) stranded”, e poi Heartbreakers, Cramps e Blondie negli U.S.A. . Tutto come se una oscura regia avesse disseminato il verbo per poi assistere alla irrefrenabile diffusione su larga scala.
Nel Regno Unito “No future” diventa il comandamento: le icone sono stilemi pop che senza riguardo mescolano le carte, colori acidi ed espressioni offensive che rimettono tutto in gioco. Lo spirito è rapido, quasi situazionista. È l’etica del “do it yourself”, l’apotesi della possibilità. Semplici strumenti. Si formano le prime etichette indipendenti, in grado di produrre e gestire artisti e musica: tra le altre nasceranno in questi anni la Rough Trade di Geoff Travis, che in origine è un negozio di dischi, la Cherry red, la Mute, la Factory Records. Nascono le fanzine, piccoli giornali rivolti ad appassionati, testimonianze vive di passioni e sottogeneri improvvisamente capaci di legittimarsi. Il punk è una linea di demarcazione: dopo , niente sarà più come prima.
Nel 1977 i Pistols organizzano una tournee che promette sfracelli con Clash e Damned: si chiama Anarchy in the U.K. tour, e verrà annullata quasi integralmente per il ribrezzo e i danni del nuovo fenomeno generazionale. E proprio i Clash, da alfieri del punk, ne diventeranno l’araba fenice, proiettando quel modello anarchico su terreni musicali e culturali impensabili. La loro musica andrà di pari passo con la consapevolezza politica. Il gruppo si costruirà una coscienza superando l’oltranzismo dei punk più intransigenti, diventando un faro a tutto campo: “London Calling”, doppio album mescolerà al punk il reggae, il pop e il rockabilly ai primi colpi dell’album omonimo, indicando la strada. La copertina, che riprende la grafica di un vecchio album di Elvis, diventerà leggenda, col bassista Paul Simonon intento a distruggere il suo strumento contro il palco.
Poi arriverà il triplo “Sandinista”, i concerti, i contratto major e una maglietta delle brigate rosse esibita in uno storico concerto italiano.
Nel frattempo la giostra dei Pistols si ferma, Johnny Rotten torna ad essere John Lydon e forma i Public Image Limited, gruppo corrosivo e pulsante destinato a diventare un caposaldo della nascente new-wave. Il gruppo si dichiara antirock, lavora sul dub e sugli stacchi, col binomio Jah Wobble al basso e Keith Levene alla chitarra. Dalla cricca di fiancheggiatori che circondava i Sex Pistols, nota come Bromley contingent, arriveranno nuovi sviluppi. Tra i seguaci c’erano Siouxsie Sioux, destinata a diventare anima del gruppo dei banshees, icona dark influenzata ovviamente dal punk, e Billy Idol, idolo cyber degli imminenti eighties. Intanto anche i Cure di Robert Smith sono in via di formazione: cos’altro è “Boys don’t cry”, dal primo album, se non purissimo punk immerso in una gradevole patina pop? Le carte cominciano a mescolarsi e il neonato genere punk, già riposto negli archivi, lascia posto ad altre realtà, nuovi ibridi che prendono forme autonome. I Wire, dopo la scossa di Pink Flag, iniziano a delineare percorsi sperimentali. In tre dischi proveranno a destrutturare, sperimentare, evolvere: “154” e “Chairs missing” restano scrigni che il tempo ha conservato benissimo. Nascono i Fall di Mark E. Smith, che tuttora dicono la loro con ragguardevole fedeltà alla linea ispiratrice del 1977, dissacranti e longevi esponenti di una musica ironica e controculturale, fondamentalmente pop. La storia prosegue e si snoda su percorsi in divenire, con legami intrecciati: nel ‘77 sono nati i Warzaw di Ian Curtis, che nel 1978 diventano Joy Division. Prendono il nome da una canzone inserita in “Low” di David Bowie, pezzo fondamentale della trilogia berlinese destinata a sdoganare le correnti cosmiche provenienti dalla Germania. Il complice del duca bianco è uno dei deus ex machina del movimento in divenire che si chiamerà, primo esempio di atrofia intellettuale, post punk. Quest’uomo, destinato a diventare influente su entrambe le sponde dell’atlantico come esponente della nascente categoria dei non-musicisti, produttore e sperimentatore punk nel senso più ampio e puro del termine, è Brian Eno. Dopo il lavoro con Bowie, arrivano i sodalizi con i Talking Heads di David Byrne e il lavoro su ritmo e produzione: le teste parlanti diverranno alfieri della nascente new wave, arrivando con “Remain in light” a dipingere un colorato sound pulsante fatto di pop, funk ed innesti elettronici. Eno, che rimarrà coinvolto nella no-wave newyorkese di Lydia Lunch, James Chance, Lunge Lizards, DNA, influenzerà generazioni intere di musicisti, lui che era partito dai lustrini glam dei Roxy music e da un pugno di album solisti. La no-wave abbraccia dance, funk, sperimentazione e jazz.
Tra Stati uniti e Regno unito la scena partorirà ulteriori mutanti come i Pere Ubu, da Cleveland, i Devo ad Akron, che trattano musica per l’era industriale, figlia di fumi e alterazioni del panorama Danze robotiche e convulsioni post.
Semi per il futuro: più che sogni, incubi e ripetizioni. Come i Suicide, di Alan Vega e Martin Rev, newyorkesi, che sul personale retroterra fatto di Jazz e sperimentazione fondono ossessioni urbane dipinte di nera angoscia elettronica. Nell’isola britannica arriveranno i Cabaret Voltaire, i Clock DVA e i profeti dell’industrial Throbbing gristle.
“Chi stava sul palco e tra il pubblico era la stessa gente”: lo si è detto a proposito del figlio degenere del punk, l’Oi, che vene erroneamente assimilato a certa cultura skinhead. Esponenti di spicco, osteggiati dalle autorità per la loro sovversiva carica sociale, erano gli Sham 69 di Jimmy Pursey. Una parentesi misconosciuta, lo “Street punk” britannico, 78-82. risse, cori da stadio, punk grezzo con semplici radici radici garage.
Altrove in U.K. la musica rigonfia i bassi e accumina le chitarre, decostruendo e attaccando il sistema: se i Gang of Four studiano Marx innestandoci dosi massicce di funk e linee di basso angolare, il Pop Group di Mark Stewart elabora forti critiche sociali su basi dub-funk. Emblematici, rispettivamente, Entertainment! dei primi e Y dei secondi, quest’ultimo con una copertina che incarna alla perfezione l’immaginario della cultura originaria, pura, tribale. Il discorso arriva così alle Slits, contaminazione di reggae-punk-caos: tre donne che dalla copertina di “Cut”, primo album, sfidano nude il maschilismo imperante nell’ambiente. Acme della follia scatenata del gruppo, quella volta in cui la cantante Ari Up, sorta di selvaggia in rasta, alle prese con un concerto caotico, si lascia andare senza cercare il bagno e piscia sul palco.
Contemporaneamente al boom londinese gli stati uniti avranno altri esempi estetici e anche drammatici del fenomeno punk: tre anni appena per i Germs bastarono a distruggere il cantante Jean Paul Beahm, animale da palco finito male, altro mito da esporre nella schiera dei caduti. Dal 77 all’80 per una fiammata rapida ben nota a chi bazzica il rock’n roll più viscerale.
Dall’altra parte dell’oceano il punk americano avrà decisi risvolti hardcore, estremizzando la sua estetica: una crescita, oltre il nichilismo di facciata degli inizi. I californiani Black Flag di Henry Rollins, i Dead Kennedys di Jello Biafra con l’indimenticato inno “California uber alles” dall’album “Fresh fruit for rotting vegetables”, i Flipper, i Bad religion dell’hardcore melodico che genererà nei ‘90 gli emuli Offspring e NoFx. Nasceranno poi i losangelini X, cantori oscuri di John Doe ed Exene Cervenka, con testi poetici e ritmi martellanti per l’album dedicato alla loro città, prodotti dall’ex doors Ray Manzarek. A Washington D.C. sono i Minor Threat, un pezzo per tutti “Straight edge”, a costituire un imprescindibile punto fermo per l’argomento hardcore: l’etica punk si sposa ad una linea ideologica che proseguirà attraverso il lavoro di Ian Mackaye, fondatore del gruppo e artefice dei futuri Fugazi, metro di paragone etico-politico- musicale per tutto ciò che significa la parola “indipendente”. Mackaye fonda la Dischord, etichetta di riferimento destinata a dare spazio ad una realtà che attraverserà tutti i novanta con una vera scuola di pensiero, una filosofia. Fugazi, ovvero puro slang per “totally fucked-up situation”: musica indipendente, varia, totalmente punk e totalmente rock, che indica politica e codici, slogan sintetici ragionati e tecniche musicali a due voci, con Mackaye affiancato da Guy Picciotto, dove il rumore è rabbia pura. Il primo album “Repeater”, 1990, è tuttora IL Post punk.
Sulle scie del big bang originario si dispiegherà una rosa assai ampia, dalle influenze intellettuali e critiche, dando vita agli originali Tuxedomoon, fautori di un rock di matrice europea e sperimentale dal taglio moderno, ai dissacranti e onnivori Residents, musicisti senza identità in giro per stili e progetti, fino ad arrivare a piccoli fenomeni americani, scene rimaste di nicchia come Garage rock e Paisley underground. Se arriviamo a formazioni più recenti come i Minutemen , gli Husker du e i Meat Puppets, con gli ottanta ormai iniziati, possiamo chiudere il discorso.
Abbiamo solo dimenticato di dire che nel frattempo ci hanno lasciati Joe Strummer, Ian Curtis e tanti altri. Emblematico il caso del bassista Sid Vicious, che dopo aver (forse) accoltellato la compagna Nancy, come raccontato dal celebre film, si è sparato una overdose letale d’eroina chiudendo il sipario. L’altra morte , più recente, risale all’aprile 1994 e riguarda Kurt Cobain: prima di quel drammatico colpo di fucile in faccia il gruppo aveva suonato con Pat Smear, già chitarrista dei Germs. Forse, come scrive qualcuno, il grunge è stato il vero ultimo anelito del rock, questa volta esploso negli Stati Uniti, sorta di punk americano. In quel 1991 che sembra già lontanissimo fece irruzione in classifica e nei cuori di milioni di adolescenti un bambino nudo che nuotava verso il dollaro appeso all’amo. È il rock’n roll che torna alle origini . Cos’altro è lo spirito adolescente di “Smells like teen spirit?”. Cobain non lo sa, ma purtroppo anche questa volta lo slogan è uguale. Il titolo di quel disco, Nevermind, “non importa”, è sufficientemente sinistro e nichilista. È la stessa parola che apriva l’unico disco dei Pistols. Quelli del “No future”, ricordate?
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore
www.cbgb.com – en.wikipedia.org/wiki/Punk