La notizia è clamorosa e inaspettata: i Not Moving, una tra le più leggendarie formazioni dell’underground italiano degli anni ‘80, si sono riformati. A dare l’occasione per tornare insieme, per un pugno di date “mordi-e-fuggi”, è stata la pubblicazione di un box antologico (CD live e documentario su DVD), pubblicato dalla Go Down Records con l’icastico titolo di “Live In The 80’s”.
Chi non ha conosciuto in tempo reale Lilith, Dome La Muerte, Dany D., Maria Severine e Tony Face, magari soltanto per ragioni anagrafiche, non sa che stiamo parlando della più grande band italiana degli anni ’80. Una formazione che, nel volgere di cinque/sei anni, cambiò completamente il corso del rock’n’roll “made in Italy” con un sound paragonabile solo a quello che, dall’altra parte dell’Oceano, stavano portando avanti nello stesso periodo gruppi del calibro di Gun Club, X e Cramps. Rock’n’roll oscuro e tirato, a volte più dilatato e psichedelico, più spesso dai toni garage e punk-blues. I loro dischi (i singoli “Strange Dolls” e “Movin’ Over”, l’EP “Black’n’Wild”, gli album “Sinnermen” e “Flash On You”, il mini “Jesus Loves His Children”), da anni ricercati pezzi da collezione, contengono lo spirito iconoclasta di una band davvero irripetibile e forse troppo “avanti” per la scena indipendente italiana dell’epoca.
Nel 1988, nonostante fossero amati dalla critica underground e avessero dalla loro un apprezzabile seguito di fans, i Not Moving si separarono: da un lato Dome e Maria Severine proseguirono per alcune stagioni mantenendo la sigla della band, dall’altro Lilith intraprese un’interessante carriera da solista affiancata da Tony Face, suo compagno pure nella vita.
E proprio con Tony Face, batterista della band e nome storico del MODernismo italiano, abbiamo intrattenuto una piacevole conversazione sulla reunion della sua leggendaria formazione.
Domanda d’obbligo per iniziare: perché avete deciso di riformare la band dopo tutto questo tempo? Quali sono le motivazioni e gli obiettivi dei ‘nuovi’ Not Moving?
Essenzialmente per promuovere “Live in The 80’s” e perché la cosa ha coinciso con il ritorno in Italia del bassista Dany, dopo quasi vent’anni vissuti in Germania. Da lì l’idea di rimetterci assieme e tenere qualche data. E gli obiettivi al momento si fermano qua perché non ci sono altre prospettive oltre alle date stabilite.
“Live In the 80’s” è il box-set che la Go Down Records ha licenziato in concomitanza del tour. Siete soddisfatti di questa pubblicazione? Secondo voi rende bene lo spirito della band?
Secondo me è il lavoro discografico che rende meglio quello che è stato il mondo Not Moving, la cui dimensione migliore era dal vivo. I dischi in studio sono sempre stati al di sotto dello standard della band.
L’Italia underground dei primi anni ’80 era irrimediabilmente attratta dall’Inghilterra e dalla new wave britannica, mentre i riferimenti dei Not Moving erano indiscutibilmente di matrice americana. Il vostro percorso sonoro non era dissimile da quello che, negli stessi anni dall’altra parte dell’Oceano, stavano portando avanti gruppi come X, Gun Club e Cramps. Ovvero rivisitare le radici del rock’n’roll in chiave punk-blues, con elementi psichedelici e garage.
Da dove nasceva il suono dei Not Moving?
Nasceva dall’ascolto del materiale originale anni ‘50 e ‘60 riadattato con il furore della scena punk di fine ‘70/primi ’80. Noi abbiamo sempre ascoltato blues, beat, psichedelia, rock’n’roll, rockabilly originali. Dove gli altri gruppi del periodo facevano riferimento a Joy Division o al punk in generale, noi guardavamo a Robert Johnson, ai primi Stones, a John Lee Hooker, al soul più oscuro e lo riproponevamo due o tre volte più veloce con tutta l’urgenza che nasceva da un gruppo di minorenni alle prese con la musica.
Un altro elemento assai importante della band era legato alla vostra immagine oscura ed esoterica. Quali erano i vostri riferimenti estetici più evidenti?
Anche in questo caso guardavamo alla tradizione voodoo di New Orleans, a Bo Diddley, a Screamin’ Jay Hawkins, a certi testi “oscuri”” di John Lee Hooker , agli Stones di “Sympathy for the Devil”, oltre che all’immagine di Cramps e Gun Club. Siamo stati spesso accomunati alla scena “dark”, ma non abbiamo mai condiviso granché con quell’immagine e quei suoni.
In sette anni di attività, i Not Moving “storici” pubblicarono diversi dischi di vario formato (7 pollici, Ep, LP). A tuo giudizio quali sono le migliori prove discografiche della band?
Credo che l’EP “Black’N’Wild” del 1985 riassuma al meglio il sound dei Not Moving. Anche “Jesus Loves His Children” del 1987 è ottimo, soprattutto da un punto di vista compositivo. L’album del 1986, “Sinnermen”, poteva essere il migliore ma fu penalizzato da un rimixaggio non autorizzato da parte dell’etichetta discografica.
Il vostro percorso discografico fu, infatti, pieno di ostacoli e imprevisti. Prima dell’episodio di “Sinnermen”, c’era già stato quello di “Land Of Nothing”, un album completato che rimase nei cassetti della label che avrebbe dovuto pubblicarlo (fino all’uscita postuma, nel 2003, grazie all’interessamento di Area Pirata, NdR).
Come mai i Not Moving non riuscirono a trovare un’etichetta che li seguisse e supportasse adeguatamente?
In buona parte fu colpa nostra poiché non accettammo mai compromessi, ad esempio sull’uso della lingua italiana o in termini contrattuali. Rifiutammo un contratto con la CGD, che ci proponeva un album in italiano, o altre proposte: a volte per fretta, sicuramente per poca esperienza, altre volte per l’urgenza di vedere i nuovi brani su disco. Col senno di poi una migliore gestione delle nostre potenzialità avrebbe potuto portarci a situazioni migliori , ma comunque il nostro motto rimane: “nessun rimorso, nessun rimpianto”.
Vista la loro irreperibilità, avete mai pensato di ristampare su CD i vostri dischi, magari raccogliendo EP e singoli in un’ unica antologia?
Ci sarebbe in programma qualcosa del genere, ma tra permessi dall’una o dall’altra label, recupero dei nastri originali, scelta dei brani, credo che lasceremo tutto come sta.
Nel 1987 dopo la pubblicazione di “Flash On You”, che personalmente continuo a considerare una delle vostre prove migliori, la band si divise. Quali furono i motivi che portarono a quella rottura?
Eravamo insieme praticamente giorno e notte da otto anni, le tensioni erano aumentate e con esse anche le pressioni esterne. Non eravamo più gli adolescenti a cui interessava solo suonare, ma adulti con le relative problematiche che incominciavano a chiedersi (un po’ tardi…) cosa fare da grandi.
Anche in questo caso, se invece di dare spazio ai soli istinto e spontaneità, avessimo riflettuto un po’ di più e gestito meglio la situazione, forse avremmo trovato una soluzione meno traumatica. Dal mio punto di vista, però, questa scissione diede vita all’avventura solista con Lilith che continuo a ritenere uno dei momenti più sereni, energici e belli della mia carriera musicale e della mia vita in generale.
Successivamente a quello split, Dome La Muerte e Maria Severine continuarono con la sigla Not Moving, mentre – come ricordavi un attimo fa – Lilith intraprese una proficua carriera solista, a cui prendesti parte anche tu. A un certo punto, però, non si è più sentito parlare degli ex-membri dei Not Moving, quasi foste scomparsi all’improvviso dalle scene. Cosa avete fatto negli ultimi anni e cosa fate adesso nella vita di tutti i giorni?
Dome ha suonato negli Hush, con MGZ ed è stato sempre attivo in ambito musicale, ad esempio suonando la chitarra nella colonna sonora di “Nirvana” di Salvatores. Ora fa il DJ. Dany ha suonato con un po’ di gruppi in Germania, è rientrato in Italia da qualche mese e lavora all’Ikea. Maria Severine ha smesso e lavora in autogrill, oltre ad accudire due figli. Lilith ha fatto un figlio con me (siamo sposati da 16 anni), si è diplomata al Liceo Artistico, fa teatro sperimentale e altro. Io ho suonato con il Link Quartet incidendo tre album, facendo due tour in USA, suonando a Londra, in tutta Europa e tutta Italia all’insegna dell’Hammond Beat. Lavoro alla Coop, programmando – tra le altre cose – la musica che va nei supermercati…
Tornando per un attimo indietro, ricordo che i Not Moving suonarono con due leggende del punk: i Clash (sebbene fosse l’ultima line-up senza Mick Jones) e con Johnny Thunders. Che ricordi portate di quelle esperienze?
Ottimi. Quando i Clash suonarono a Milano nel 1984 fummo avvertiti alle 6 di mattina del giorno stesso da Eddy King, un roadie della band nostro amico (l’autore del logo dei Not Moving che campeggia sulla copertina di “Sinnerman”) che li convinse a farci aprire per loro.
Partimmo per Milano con le auto stracariche, facemmo un soundcheck velocissimo e ci trovammo davanti a 12.000 persone ignare di dover sopportare anche un gruppo italiano. Ci presero a bottigliate dopo che Lilith mandò affanculo un po’ tutti . Le restituimmo tutte, sputi e insulti inclusi, e alla fine furono in molti a essere sorpresi per il coraggio, la strafottenza e il modo in cui tenemmo il palco, anche perché suonammo piuttosto bene. Alla fine gli stessi Strummer e Simenon vennero a congratularsi con noi.
Johnny Thunders, invece, era alla fine sia artisticamente che fisicamente. Noi eravamo ovviamente molto emozionati di condividere tre date con lui e paradossalmente ci rimase a lungo l’amarezza di aver avuto più “successo” di lui. I nostri erano set tirati, aggressivi, essenziali. I suoi erano spesso claudicanti, stonati, pieni di errori tecnici, a volte dimenticava le parole delle canzoni. La sua versione di “Pipeline”, lenta, un po’ fuori tempo, non reggeva il confronto con la nostra, tirata, punkeggiante ed energica. Tornammo dal tour allo stesso tempo contenti e amareggiati.
Parlando invece del presente, cosa vi aspettate da questo tour e quali sono i vostri obiettivi futuri?
Niente di particolare. Le prime date ci hanno consegnato tanto entusiasmo e un aspetto inatteso, cioè la presenza di una larga rappresentanza di giovanissimi che erano appena nati quando noi già eravamo in giro da un po’. Una cosa davvero incoraggiante. Non ci sono obiettivi futuri. La reunion inizia e finisce qui.
Autore: Roberto Calabrò
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