Premessa: “se è vero che l’adorazione non si sposa con la credibilità e non contempla un giudizio neutrale sui fatti, allora è opportuno avvisare il lettore che questa recensione non sarà obiettiva”.
Attendavamo questo concerto da mesi, forse dalla scorsa estate visto che la prima tournée europea di questo talentuoso artista statunitense non aveva contemplato una data nei nostri lidi; eppure c’era come un presentimento, una trepidazione accompagnata da fiduciosa speranza (internet vede e prevede) che sarebbero state le stelle di Ferrara ad illuminare la prima italiana di Bon Iver, alias Justin Vernon, la super-nova dell’ indie del terzo millennio.
Neppure il drammatico terremoto di due mesi fa – che ha costretto a spostare il concerto dalla storica piazza Castello al Motovelodromo – ha privato questa città di uno dei live più intensi ed emotivamente partecipati che si ricordino da queste parti, anzi, la nuova location, con i suoi ampi spazi e il prato accogliente è sembrata fin da subito tutt’altro che un ripiego.
E così, poco dopo l’imbrunire, su di un palco ornato di drappeggi penzolanti e simil-lampade votive appare il nostro barbuto del Wisconsin, vestito di un improbabile canottiera a rombi colorati e l’immancabile compagna a sei corde. E con lui e da lui arrivano anche le prime note di “Perth”, con il suo falsetto celestiale che s’insinua sull’incalzante ritmo da marcia, prima che i bassi e le voci da gospel contemporaneo ci proiettino in un mondo a metà tra il fatato e il bucolico.
E’ solo il primo abbraccio del tornado, la prima zampata della farfalla e Justin sembra innescare il tutto a dovere quando intona “Minnesota WI” con una voce profonda, intima, calda, bella perché il Bello continua ad essere tale anche quando arriva dopo tanta bellezza.
Si prosegue facendo ritorno in quel prezioso mondo di corde di cristallo per donarci, perché di dono si tratta, una “Michicant” da brividi, con perfino una coda strumentale fatta di spazzole e fiati dal profumo delicatamente jazz.
Non c’è un solo secondo di sosta tra una canzone e l’altra, ogni pausa è boicottata in nome di una continuità musicale che ha dello stupefacente, da ogni nota che muore ce n’è immediatamente un’altra che prende vita nella voce di Vernon o in qualsiasi strumento di questa vera e propria big band.
L’altro elemento che lascia sbalorditi è la maestosità dei suoni, degli strumenti e degli interpreti coinvolti, in netta antitesi con l’intimismo struggente che avvolge ogni nota di quel capolavoro che è “For Emma Forever Ago”, agli antipodi da quell’ambient – folk sussurrato che ha squarciato inevitabilmente l’inizio del millennio musicale.
Una doppia batteria, fiati e archi, percussioni varie e ben tre chitarre sono la “tavolozza” dalla quale il nostro artista ricava le tonalità per dipingere la splendida post-country “Towers”, l’ipnotica “Holocene” e la sempre meravigliosa “Skinny Love”, oramai un vero e proprio inno “post-qualunque cosa”.
Quando poi Vernon decide di aprire la vetrinetta delle gemme preziose allora ti spieghi il perché di tanta venerazione trasversale (dai National a Kanye West), il perché dei due recenti Grammy, perché con 35° gradi “Creature Fear” ti provoca solo brividi e “Re-Stacks”, eseguita con la sola compagnia di una chitarra e un fascio di luce bianca, non ti arriva, no, non ti arriva…ti attraversa.
“Beth/Rest” chiude la prima parte del set e sorprende per la sua resa inaspettata, corposa, di gran lunga migliore rispetto al disco. Le manipolazioni vocali, figlie di auto-tune e >vocoder, sembrano umanizzate, le chitarre, in primissimo piano come non mai, sono calde e magnetiche, le orchestrazioni >synth-pop e la lunga coda strumentale sono la risposta a qualche detrattore dell’ultima ora sull’efficacia live di questo meraviglioso progetto.
E’ tutto perfetto nel mondo di questo uomo venuto da lontano, forse anche troppo delle volte, lasciando magari in naftalina un coinvolgimento che spesso trasforma un evento da incredibile a indimenticabile, ma basta il primo bis per piantare un chiodo nella memoria collettiva di una serata, basta una “The Wolves” epica, elettrificata fino a diventare hard-rock, per dar vita a un braciere di mani e voci indirizzate al cielo, basta quel verso ripetuto all’unisono, “What Might Have Been Lost”, per far pace, forse, con la storia della musica, per pretendere e avere una volta per tutte, il nostro Oracolo.
Autore: Alfonso Posillipo
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